Fischietti, pressioni e cartellini: il complicato mestiere dell’arbitro

Intervista al capo degli arbitri italiani che ci dice la sua anche sul “caso Parisse”. E poi due contributi di Frati e Casellato

ph. Sebastiano Pessina

Una intervista al “boss” degli arbitri italiani per cercare di scattare una fotografia al movimento. Punti di forza, debolezze, prospettive. Un lavoro che non può e non vuole essere esaustivo, ma stimolare una discussione. In coda all’intervista troverete due brevi testimonianze scritte dai coach di Mogliano e Prato – Casellato e Frati – sulle differenze che hanno percepito tra gli arbitraggi internazionali e quelli nazionali. La chiusura ideale di questo focus la troverete domani con un appuntamento della rubrica “Giù il gettone” dedicato proprio ai fischietti. Ovviamente con la maestria e la conoscenza al di fuori del comune di Antonio Raimondi.

 

La premessa d’obbligo da fare è che questo piccolo speciale sugli arbitri è stato pensato e organizzato prima dell’affaire Parisse (e la prova la trovate in questo articolo pubblicato venerdì scorso). Ma a volte la cronaca fa diventare molto caldi argomenti che per loro natura sarebbero “freddi” e atemporali.
Così quando abbiamo contattato Giampaolo Celon, Presidente Commissione Nazionale Arbitri, per fare l’intervista che state per leggere non abbiamo non potuto chiedere un suo parere sul “caso” che sta agitando la vigilia di Italia-Galles del Sei Nazioni: “Mah, ho appena finito di rivedere il video. Le parole incriminate non si sentono, mi auguro che le cose vadano per il meglio. Sono sorpreso perché Parisse in questi episodi non è mai protagonista e sono colpito dallo stupore di Sergio dopo aver visto il cartellino rosso: la faccia e l’espressione sono quelle di uno che davvero non ha fatto nulla. Magari c’è stato un errore da parte dell’arbitro, uno scambio di persona, qualcuno che era vicino a Parisse e che ha detto delle cose, poi Cardona ha pensato che a pronunciarle fosse stato il capitano azzurro. Non so, non riesco a capacitarmene”.

 

Qualcuno pensa che si possa ricondurre la vicenda a una sorta di scontro Italia-Francia. Secondo: il fatto che non si sentano le parole incriminate non peggiora in realtà la situazione di Parisse? Mi spiego meglio: la questione è diventata “la mia parola contro la tua”, la LNR se la sentirà di sconfessare un arbitro?
La questione Italia-Francia è ridicola, non esiste. Sergio è un giocatore rispettato da tutti anche al di là delle Alpi. Non ha mai creato problemi, si è sempre comportato in maniera esemplare, è il capitano e il simbolo dello Stade Francais.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda dipende tutto da come viene presentato il ricorso e dallo stesso Cardona: l’arbitro in questi casi è in una posizione privilegiata e se conferma con la massima certezza i motivi che lo hanno spinto all’espulsione c’è poco da fare. Ma se nel suo rapporto ha usato dei condizionali… beh, qualcosa potrebbe cambiare.

 

Veniamo ora al motivo vero di questa intervista. Vogliamo parlare della situazione arbitri in Italia, fare un po’ il punto della situazione. Capire quanto è difficile, o facile, arbitrare dall’Eccellenza in giù. E per iniziare partiamo con una domanda che è un paradosso, o forse no: è più facile dirigere Francia-Galles o Viadana-Calvisano?
Sicuramente Francia-Galles. Ora dirò una cosa un po’ provocatoria ma profondamente vera: più i giocatori giocano meglio più è facile per l’arbitro fare il suo lavoro. Se l’asticella qualitativa del gioco è alta anche l’arbitro è facilitato e stimolato nel migliorare la sua prestazione. Faccio un esempio pratico: qualche mese fa il nostro Carlo Damasco ha arbitrato una partita di Heineken Cup, ha dovuto fischiare 10-12 falli, la partita è andata via liscia e alla fine erano tutti contenti di lui. La settimana dopo ha arbitrato in Eccellenza una gara dove ha fischiato 30 calci. Ovviamente sono fioccate le critiche.

 

Quanto può incidere l’ambiente? Trovarsi in uno stadio con qualche centinaio di persone molto vicine che urlano cose magari poco simpatiche nella tua stessa lingua non deve essere facile
No, non è semplice, ma l’ambiente incide in maniera proporzionale all’esperienza dell’arbitro. Poi c’è anche un fattore umano legato alla sensibilità e al carattere di ognuno, ma l’esperienza è determinante. Dirigere una partita in un grande stadio internazionale è diverso, non più facile o difficile. Solo diverso.

 

Veniamo ora a uno dei totem del rugby-pensiero, almeno così come viene venduto: l’arbitro non si contesta, l’arbitro si rispetta sempre. E’ così nella pratica sui campi di tutte le categorie?
Direi di sì, qua e là qualche episodio discutibile succede inevitabilmente ma noi siamo un’oasi di pace rispetto ad altri sport, c’è sicuramente più rispetto. Già il fatto che con un cartellino giallo stai fuori 10 minuti aiuta non poco. C’è una componente legata alle sanzioni e un’altra più culturale. I giocatori sanno che certe cose non si fanno: nessuno ti tocca – e non intendo in maniera violenta, anche solo per attirare l’attenzione – o spintona e se qualcuno lo fa sa che le sanzioni possono essere davvero dure, stare fuori per mesi.
Parolacce e insulti? Beh, certo, ci sono anche quelli, soprattutto da parte del pubblico, ma fa parte del gioco e tutto si chiude con il fischio finale. Gli episodi che dicono il contrario non sono affatto diffusi, non sono assolutamente la norma. Non ci sono nemmeno quelle libertà che in altre discipline il grande campione si sente di potersi prendere in nome del suo status: giocatore esperto o ragazzino non c’è differenza. E alla fine c’è sempre il buon senso: far finta di non aver sentito in determinate condizione può aiutare, ma deve essere l’eccezione.

 

Veniamo alla “produzione” di arbitri. Parola orribile, ma rende l’idea
Una premessa innanzitutto: noi lavoriamo tanto con club e allenatori, li sentiamo spesso per confrontarci e questo è fondamentale. L’aspetto tecnico è determinante tanto quanto quello numerico. Abbiamo degli incontri periodici con tutti gli arbitri dell’Eccellenza e in qualche occasione partecipano anche i coach. Poi ci sono dei corsi e degli incontri specifici dove spesso vengono come ospiti anche importanti colleghi esteri. Infine c’è l’Accademia: a Tirrenia l’ultima settimana di ogni mese si ritrovano per 3/4 giorni un gruppo di giovani che stiamo facendo crescere. Si allenano, fanno test fisici, incontri, seminari, imparano a editare le immagini, devono tutti sapere l’inglese. In questo momento sono 17 uomini e 2 ragazze.
I numeri: oggi gli arbitri tesserati sono 970. Dal 2002, anno in cui sono entrato in carica, ad oggi la categoria è numericamente aumentata del 73,7%, con i “derogati” si sale al 120%. Ma queste cifre in sé significano poco o nulla: per fare un paragone bisogna pensare che nello stesso arco di anni il numero delle società è cresciuto del 40%. Nel 2012 abbiamo assicurato 13.429 servizi, nel 2007 erano stati 9.242 (ndr: per “servizio” non si intende la partita singola ma il numero complessivo di persone coinvolte nei vari compiti di direzione delle gare – arbitro, guardalinee, citing commissioner, Tmo, eccetera… – sommandoli fine settimana dopo fine settimana).

 

Soddisfatto?
Sì, abbiamo lavorato bene ma i problemi non mancano. La crescita è stata disomogenea e noi dobbiamo comunque coprire tutto il territorio nazionale ogni fine settimana. Questo significa spostamenti, criticità logistiche e naturalmente di costi.

 

Ultima domanda: che impatto ha avuto il professionismo sulla figura dell’arbitro?
Mah, io all’arbitro professionista full time ci credo poco. Il professionismo arbitrale ha caratteristiche diverse da quelle dei giocatori o dei dirigenti, il professionismo ci tocca ma alla fine non più di tanto. La nostra carriera dura molto poco, va trovato un equilibrio: se una federazione ti mette sotto contratto a tempo pieno poi deve pensare a come gestirti una volta che hai finito di andare a dirigere le partite. Si parla di soldi e di prospettive professionali. Una federazione può garantirne a quanti? Pochi. No, meglio il semi-professionismo: contratti con le federazioni ma ognuno mantiene il suo lavoro.

 

NOI E GLI ALTRI – Impressioni sugli arbitri italiani e stranieri firmate da due tecnici che hanno potuto confrontarne i diversi approcci e metri di giudizio grazie alla partecipazione in Challenge Cup (abbiamo escluso Zebre e Benetton Treviso perché le franchigie non hanno modo di “testare” in maniera continuativa quello che avviene sui campi italiani essendo iscritti a un torneo internazionale).

UMBERTO CASELLATO: Difficile fare delle valutazioni sulle terne arbitrali , che abbiamo trovato in coppa e quelle che troviamo abitualmente in Eccellenza; non voglio difendere i fischietti italiani, anche perché non ne hanno bisogno, ma ho mandato diverse clip video al sig. Faccioli e al sig. Desantis (che tengono i rapporti con ERC ) che documentano grossissimi errori anche di arbitri nelle coppe, ma che forza posso avere se la partita finisce 50-60 punti di scarto…
Una cosa però va detta: con tutte le squadre che abbiamo giocato ho avuto l’impressione che gli avversari avessero una conoscenza del regolamento molto importante e che giocassero in base al metro di giudizio arbitrale.
Ripeto comunque, che arbitrare partite senza nessuna pressione e stress da risultato finale, è molto più facile che arbitrare un VIADANA – MOGLIANO con il Viadana in difesa sulla loro linea di meta e con il Mogliano con l’ultimo possesso palla e sotto di 4 punti, per fare un esempio abbastanza recente.
Quindi concludo che errori ne fanno i nostri come gli stranieri (penso che Scozia-Italia sia un esempio chiaro!), se poi qualcuno mi dice che perdiamo o vinciamo per 5-6 fischi sbagliati in una partita, allora dico che non siamo coerenti e che cerchiamo alibi facili a delle sconfitte della nostra squadra.

FILIPPO FRATI: “How are you?”, “I’m fine”. Parto da questo esempio, chi conosce bene l’inglese applica le regole grammaticali e capisce il significato del discorso, ossia “Come stai?”, “Sto bene”. Chi ha studiato poco l’inglese potrebbe limitarsi ad applicare le regole e tradurre “Come sei tu?”, “Io sono bene”.
Un buon arbitro prima di conoscere le regole del gioco dovrebbe conoscere il gioco e favorirne lo svolgimento, un buon arbitro conosce il significato delle regole. Facendo riferimento all’area del break down, la tendenza generale nelle nazioni più evolute è quella di tutelare la squadra che attacca. Attenzione, tutelare non significa favorire, mentre purtroppo in Italia la sensazione che avverto, allenando una squadra che cerca di proporre un rugby positivo e quindi che vuole attaccare con la palla in mano, è che gli arbitri facciano più attenzione ai falli della squadra che attacca e cerca di COSTRUIRE gioco che non il contrario, permettendo di tutto al placcatore e al sostegno di recupero e di fatto contribuire in modo negativo allo sviluppo del gioco, tutelando invecechi il gioco lo vuole DISTRUGGERE o rallentare.
E se una squadra merita 4 cartellini gialli, deve ricevere 4 cartellini gialli, perché è questo che accade quando affrontiamo squadre più forti di noi in giro per l’Europa: tolleranza zero verso la squadra che si difende fallosamente. Ed è questo che mi auguro possa accadere nel nostro campionato.

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