Evoluzione del gioco e del fisico: quanto contano le dimensioni?

Il rugby moderno richiede sempre più super atleti, ma senza skills non si va da nessuna parte. O almeno non si dovrebbe…

ph. Anthony Phelps/Action Images

ph. Anthony Phelps/Action Images

Le parole arrivano da due vecchie volpi del rugby inglese, due che assommano 64 caps internazionali col quindici della rosa e qualcosa come 366 presenze in Premiership, collezionate dal 1998 ad oggi. Insomma, due che di acqua sotto i ponti di Ovalia ne hanno vista passare parecchia. Stiamo parlando di Andy Goode, apertura classe 1980 attualmente in forza ai Wasps, e Nick Easter, numero otto classe 1978 e monumento degli Harlequines con cui è arrivato alla decima stagione.
I due hanno da poco lanciato un grido d’allarme, raccolto dalle pagine digitali del Telegraph. Il titolo del pezzo dice tutto: “Young players are too much brawn, not enough brain“. Per ridurla con un espressione più nostra, i giocatori giovani sono troppo muscoli e troppo poco cervello. Dove per cervello si intende capacità rugbistiche (dalle skills in su) e per muscoli le capacità puramente fisiche ed atletiche.

 

Come scrive l’autore del pezzo Daniel Schofield, nessuno tra i vari Thorn, Easter, Goode o Hodgson batterebbe alla panca un giovane compagno di reparto di pari livello. Ma ciò premesso, prosegue, resta ancora enorme la differenza tra gym strengthrugby strength. “Ci siamo allontanati dalla cultura del bambino che gioca a rugby per avvicinarci a quella del ragazzo che va in palestra. Sembra più una questione di quanto sollevi e non di skills“. Le parole di Easter vanno nella stessa direzione: “Qualcuno penserà che mi manca il primo metro in corsa, ma per me il primo metro è nella testa. Se prendi velocemente la giusta decisione lo guadagni”.
A detta di Goode, va molto meglio nell’Emisfero Sud, mondo che ha conosciuto grazie alla parentesi Sharks nel 2010: “Tutto l’allenamento si basa sulla palla in mano, e si preferisce concentrarsi per esempio su allenamenti nel passaggio”. Non solo, pure un certo Brian O’Driscoll ha da poco lanciato l’allarme: non più rugbisti che migliorano in palestra ma palestrati che imparano il rugby.
Solo un po’ di nostalgico astio di chi non riesca a stare più dietro ai più giovani, o campanello d’allarme da non ignorare?

 

Goode ed Easter chiamano in causa quella che da normale evoluzione fisica e del gioco sta diventando una vera e propria cifra stilistica del rugby moderno: la fisicità esasperata. Tra i cambiamenti fisici e quelli del gioco esiste una precisa relazione: più la difesa si fa fisica ed organizzata, più carrier e centri devono impattare a bomba per dare avanzamento. Con linee difensive sempre più preparate, e nel rugby del tatticismo ad ogni costo in cui vince chi subisce meno, per riuscire ad imporsi e segnare è fondamentale aumentare l’intensità dello scontro fisico. E non è un caso che sempre più spesso vincere le collisioni  sia sinonimo di vincere le partite.
Ma il problema sollevato dalle parole di Goode va forse fatto derivare da un’istanza non di tipo tattico ma specificamente tecnico, o meglio di cultura tecnica: quanti allenatori sarebbero disposti a sacrificare parte dell’intensità fisica a favore di migliori skills e di una più veloce lettura del gioco?

 

La risposta dipende da un’altra domanda: davvero può la fisicità divenire condizione necessaria e sufficiente per vincere le partite? La risposta è no. Resta però, a giudizio di chi scrive, una condizione necessaria. I chili da buttare dentro nell’impatto per dare avanzamento ai propri e arretramento all’avversario servono eccome. Nell’alto livello senza non si va da nessuna parte. Così come però non arrivi in cima se non associ a tutto ciò anche l’altra, fondamentale, credenziale: quella del gioco. Ma alla lunga non basterà nemmeno più conciliare queste due esigenze nella stessa squadra: bisognerà farlo nello stesso giocatore.
E se per qualcuno il ruolo più importante è ancora quello del pilone destro, seguito dalla riserva del pilone destro, è vero che i più adeguati e di conseguenza richiesti saranno quelli che uniscono fisicità a sapienza del gioco e dell’esecuzione. Quelli alla Retallick o Read, che placcano, entrano, passano, sporcano, puliscono e riciclano. Una sorta di “super atleta”, che esce dai binari tradizionali come successo per il tallonatore-terza aggiunta.

 

Con le dovute proporzioni, anche in altri sport stanno nascendo nuovi ruoli, dettati certo dalla specificità del singolo atleta ma anche dall’evoluzione del gioco. Potrebbe venire in mente l’ala-centro nel mondo della palla a spicchi, che difende, attacca, realizza e va a rimbalzo in situazioni di gioco differenti; o ancora il difensore nel calcio che per primo imposta la manovra (nella Germania campione del mondo a volte è addirittura il portiere Neuer). Tornando al rugby, atleti che associano alla splendida esecuzione una struttura fisica altrettanto impeccabile. In questo ordine di importanza e di formazione.

 

Comunque non si può non concordare con il “divino” BOD: deve essere sempre il fisico a svilupparsi in funzione delle skills, e non viceversa, soprattutto quando si parla di giovani e formazione, soprattutto in certe zone del campo. Shane Williams alza in panca meno di una qualunque ala moderna, ma i due contro uno li sapeva fare. O meglio, glieli avevano insegnati.
Ma la strada dalle nostre parti prende una cattiva direzione da subito: quanti allenatori delle giovanili preferirebbero una squadra più piccola ma che la passa meglio? Quanti giocatori giovani durante il riscaldamento scrutano gli avversari alla ricerca non dei più bravi ma dei più grossi? Eppure ad imparare a passare serve una vita, a mettere su dieci chili di massa magari solo sei mesi, quindi dubbi su cosa focalizzare in fase di formazione non dovrebbero esistere. La sensazione è che nel rugby le dimensioni contino ancora relativamente, o almeno fortunatamente non vengano ancora al primo posto. In Nuova Zelanda senza le sue skills Read sarebbe un signor qualunque.

 

Di Roberto Avesani

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