Il rugby italiano tra professionismo (?) e vuoti legislativi

Il “caso Sbaraglini” fa diffondere all G.I.R.A. una nota ricca di spunti sul futuro del nostro movimento

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Chi gioca a rugby in Italia è un dilettante o un professionista? Dipende dove gioca, direte voi, ed è vero. Ma anche nel caso fosse un professionista nei fatti – e in Italia chi gioca nelle due franchigie celtiche, ma non solo, lo è – non lo è agli occhi della legislazione. Qui è inutile dividersi tra chi è pro o contro a un professionismo un po’ così, c’è piuttosto da inquadrare meglio una situazione che è figlia anche di vuoti legislativi che negli anni sono stati riempiti da una prassi bene o male accettata da tutti.
Il tema, tornato alla ribalta delle cronache negli ultimi giorni a causa del “caso Sbaraglini” è di quelli complicati, che richiedono tempo e approfondimenti ben meditati. Le rivoluzioni si possono fare anche a colpi di sentenze dei Tribunali del Lavoro. Detto fuori dai denti: se ben tre corti di giustizia hanno qualificato i giocatori quali “lavoratori dipendenti a tempo indeterminato” perché il caso (al momento ancora eventuale, ma staremo a vedere) di Franco Sbaraglini dovrebbe essere diverso? E cosa succederebbe se a tale riconoscimento arrivasse un giocatore che ha militato per 12 anni nella più importante società italiana con alcune presenze in nazionale? E questa “rivoluzione” si limiterebbe alla palla ovale o investirebbe anche il resto dello sport dilettantistico italiano?
Risposte difficili. Di sicuro se ne parlerà a lungo. Nel frattempo G.I.R.A., il “sindacato” di giocatori che raccoglie la quasi totalità dei giocatori di Banetton e Zebre (ma anche di diverse squadre d’Eccellenza) ha diffuso una nota un po’ lunga ma molto interessante. E importante. Leggetela.

 

FALSO DILETTANTISMO, AGOGNATO PROFESSIONISMO, VERO LAVORO!

Nei mesi passati G.I.R.A. ha più volte affrontato il tema, spinoso, del rapporto di lavoro sportivo.
Si tratta di una sorta di tertium genus di rapporto, tra dilettantismo e professionismo, che oggi non ha ancora trovato recepimento da parte del Legislatore, ma ha trovato ampio riconoscimento da parte della Giurisprudenza (prima quella comunitaria, poi quella italiana) in seno alle varie discipline sportive, non ultima quella del Rugby.

In sintesi, la FIR è una federazione dilettantistica (per precisa scelta propria), e di conseguenza i suoi tesserati (che siano giocatori celtici o di “serie C”) non vantano alcuna posizione previdenziale, assicurativa, assistenziale, ovvero altro genere di diritto e tutela generalmente riconosciuta dalla Legge sul professionismo (la “vecchia” 91/81) agli atleti professionisti.

Per inciso, ogni Federazione Sportiva Nazionale in presenza di determinati presupposti può richiedere al CONI l’istituzione del settore professionistico nell’ambito di attività sportiva svolta, e le federazioni professionistiche in Italia attualmente sono:
– Federazione Italiana Gioco Calcio (F.I.G.C.)
– Federazione Pugilistica Italiana (F.P.I.)
– Federazione Ciclistica Italiana (F.C.I.)
– Federazione Motociclistica Italiana (FMI)
– Federazione Italiana Golf (F.I.G.)
– Federazione Italiana Pallacanestro (F.I.P.).
L’art. 10 della Legge 23/3/1981 n. 91 (legge sul professionismo sportivo) stabiliva i requisiti di una società sportiva per esser professionistica e poter stipulare contratti con sportivi professionisti:
1. costituirsi nella forma di società per azioni o a responsabilità limitata;
2. nominare in ogni caso il collegio sindacale in deroga all’articolo 2477 codice civile;
3. prevedere lo svolgimento, in via esclusiva, di attività sportive e attività connesse o strumentali;
4. prevedere che una quota parte degli utili, non inferiore al 10%, sia destinata a squadre giovanili di addestramento e formazione tecnico sportiva;
5. esser affiliata alla rispettiva Federazione Nazionale riconosciuta dal CONI.
Il divieto di lucro produttivo veniva poi eliminato con il Decreto Legge 20/9/1996 n 485, convertito nella Legge 18/11/96 n. 586 (cd. ”legge Bosman”), e, a seguito anche di ulteriori interventi normativi (non ripercorriamo l’iter per amore di sintesi), le società sportive professionistiche arrivavano ad essere equiparate alle società di capitali “commerciali”, con possibilità di effettuare operazioni sul capitale e, tra l’altro, di strutturarsi in S.p.A.
Si rammenta, poi, che il Consiglio Nazionale del CONI (cfr. delibera del 23/03/2004) fissava i criteri generali e le modalità dei controlli (obbligatori, periodici e rigorosi) sulle società professionistiche da parte delle Federazioni:
1. essere in regola con i pagamenti delle retribuzioni dipendenti e collaboratori e dei relativi contributi previdenziali, assicurativi e assistenziali e con il versamento delle ritenute fiscali;
2. essere in regola con gli adempimenti fiscali e con il versamento delle relative imposte;
3. presentare il presentare il bilancio consuntivo relativo all’ultimo esercizio regolarmente certificato da società di revisione , ove previsto la normativa vigente;
4. presentare lo stato patrimoniale ed il conto economico trimestrale regolarmente certificato società da società di revisione accompagnato da un budget che garantisca l’equilibrio finanziario allo svolgimento dell’intera stagione agonistica.
Ci si ferma qui.

Detto questo, torniamo al RUGBY…

A prescindere dal fatto che la Federazione “non voglia” virare verso il professionismo, c’è comunque da considerare che, semmai decidesse di farlo, quali e quante società (per esempio, di Eccellenza) sarebbero in grado di rispettare i criteri fissati dal CONI e dalla Legge? Che margini di sostenibilità ci sarebbero a livello economico e gestionale? Quali possibilità di impego troverebbero dirigenti e addetti in un contesto rigorosamente disciplinato e dove la mancanza di qualifica o capacità sarebbero “letali”?
Insomma, il professionismo nel Rugby italiano, dice più di qualcuno, porterebbe all’implosione del sistema.

Su tale ordine di considerazione (o scuse) magari si può anche concordare, ma non ce la si può cavare così facilmente, soprattutto nei casi in cui si “forzano” dilettanti ad allenarsi ed a giocare con intensità tale da non potersi dedicare allo studio o ad un lavoro “normale”… In situazioni consimili un giocatore, di fatto, sta facendo della sua attività sportiva un “lavoro”, magari percependo in via esclusiva (o anche prevalente) dal Rugby la fonte del sostentamento proprio e della sua famiglia.

Anche sulla scorta di queste notazioni, il Tribunale di Venezia (fallimento Venezia-Mestre), il Tribunale di Mantova (fallimento Aironi e cause varie di lavoro), il Tribunale di Parma (fallimento Crociati e causa di lavoro), hanno qualificato i giocatori quali “lavoratori dipendenti a tempo indeterminato”.
Di più: la Sezione Lavoro dell’ultimo Tribunale citato, in relazione ad un’azione di un giocatore di Eccellenza, ha stabilito che costui è stato legato per anni alla società sportiva da un RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO A TEMPO INDETERMINATO, ed ha condannato la società in questione non solo a pagare i compensi arretrati, ma anche a regolarizzare la POSIZIONE PREVIDENZIALE con l’INPS!

Attenzione: non si sta discorrendo delle Zebre, ma dell’altra SSD di Parma recentemente naufragata in un fallimento.
E però dicevano i latini: in eo quod plus sit, semper inest et minus (nel più ci sta il meno…).

Arriviamo al punto: cosa succederebbe se 40 giocatori di Treviso, 40 giocatori di Parma e chissà quanti altri di squadre di Eccellenza, si presentassero di fronte ai competenti Tribunali del Lavoro per chiedere un “nuovo”, diverso inquadramento? Cosa succederebbe se qualche “apri-pista” (magari giocatore Celtico o della Nazionale…) ottenesse analoghi riconoscimenti giudiziali dello status di lavoratore e dei conseguenti diritti previdenziali?
SAREBBE una RIVOLUZIONE (in termini sportivi)!
Come si potrebbe, infatti, tenere chiusi occhi ed orecchie sapendo che nella stessa squadra un giocatore ha un contratto da dilettante, un altro (straniero, che magari proviene da una federazione professionistica) da lavoratore autonomo (n.d.r.), ed un altro ancora deve essere (obtorto collo) “assunto” come lavoratore subordinato?

Tutto ciò, sia ben chiaro, non è legato al concetto di professionismo disciplinato dalla Legge 91/81: nelle sentenze si legge che non è applicabile la legge sul professionismo a società sportive di Federazioni dilettantistiche, proprio perché solo il CONI può deliberare, a richiesta della Federazione stessa e sussistendone i presupposti, sul cambio di regime.
Tutto ciò ha, invece, a che fare con il “lavoro” in senso tradizionale: “una volta negato il carattere professionistico dell’attività… non può però negarsi l’esistenza di un rapporto di lavoro di tipo subordinato”, affermano i Giudici.

Tiriamo le somme del discorso:
• i giocatori “dilettanti” delle categorie superiori non possono essere considerati alla stregua “amateur”, di coloro cioè che si dedicano allo sport per mera passione, come pratica salutistica del tempo libero;
• non è tuttavia applicabile ad essi la legge sul professionismo, posto che militano in società sportive affiliate a Federazioni dilettantistiche;
• è nondimeno pacifico che la qualifica in senso lavorativo o meno del rapporto sportivo deve avvenire indipendentemente dalla qualificazione giuridica attribuita dalla Federazione di appartenenza, nel caso di specie la Federazione Italiana Rugby;
• ergo, DI FATTO, tutti i giocatori Celtici e di Eccellenza (eccezioni a parte) sono LAVORATORI, piaccia o meno.

Ognuno tragga le conclusioni che vuole.

Non vogliamo scendere a commentare casi particolari (uno, in particolare, balzato agli onori della recentissima cronaca sportiva….), ma informiamo tutti gli appassionati che, dopo due anni di lavoro, nella rete professionale costruita da G.I.R.A., “coordinata” dal suo Presidente, si collocano Avvocati con mandati giudiziali già firmati da parte di giocatori di varie società sportive “note”.
E la penna, oramai si sa, ferisce più di una spada.
Il problema è rendersene conto.

(Federico D’Amelio, Presidente di G.I.R.A.)

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