Garbisi, Riccioni e Mori: giovani italiani all’estero. Un rischio o una grande opportunità?

Pro e contro di una scelta sportiva e di vita che talvolta può essere la svolta della carriera

Garbisi, Riccioni e Mori:

Giovani Italia all’estero: Paolo Garbisi Marco Riccioni e Federico Mori

Il tema dei giocatori italiani che decidono di andare all’estero, e di quanto sia utile per questi ragazzi un’esperienza in campionati di alto livello come la Premiership o il Top14, è sempre caldo durante le sessioni di mercato. A maggior ragione in questa estate, dopo la partenza a sorpresa di un talento come Paolo Garbisi e di Federico Mori, oltre a quella già preannunciata di Marco Riccioni.

Spesso, questi trasferimenti portano a chiedersi se la partenza dei nostri migliori talenti sia la cosa migliore per il movimento ma soprattutto per i giocatori stessi, o se invece sarebbe più utile che restassero in patria con una gestione – soprattutto dal punto di vista fisico – più oculata e prospettica. Se ne fa una questione di tutela della carriera degli atleti e del movimento globale, come fanno paesi dalla politica rugbistica “protezionistica”: ad esempio il Galles che, per arginare lo strapotere economico dei club di Premiership e Top14, nel 2017 ha introdotto la regola dei 60 caps.

Radicalizzare le posizioni da una parte e dall’altra non è, forse, la strada giusta.

È vero: da un lato alcuni dei nostri campioni (ma parliamo di oltre quindici anni fa) hanno costruito carriere meravigliose all’estero, pensiamo a Mauro Bergamasco in Francia o a Marco Bortolami in Francia prima e Inghilterra poi, per citare due esempi di giocatori di formazione italiana. Dall’altra parte, però, non si può ignorare la lista di quelli che hanno “pagato dazio”: pensiamo all’esperienza francese di Edoardo Padovani, arrivato oltralpe in un momento di grandissima forma e tornato a casa dopo sole 4 presenze con la maglia del Tolone, complice anche una complicata diatriba con la Fir. Si pensi anche a Favaro, Sarto e Michele Campagnaro: il primo non rinnovato nonostante due grandi stagioni a Glasgow, gli altri due martoriati dagli infortuni dopo un impatto iniziale positivo.

Fermo restando che, ovviamente, la priorità resta sempre e comunque la volontà del giocatore.

È chiaro che ogni situazione vada valutata caso per caso: andare all’estero in club prestigiosi offre possibilità di allenarsi e giocare con compagni e avversari di grande livello e beneficiare di staff e strutture prim’ordine, ma non è sempre detto che si riveli la scelta giusta. Bisogna considerare pro e contro, in base a diversi fattori: caratteristiche del giocatore, età, momento della carriera, carattere (che fa molto nel sapersi adattare alla vita sportiva e non), e il contesto in cui si andrà ad inserire (tipo di club, concorrenza nel ruolo, opportunità di crescita). Valutare, insomma, se il giocatore abbia le caratteristiche fisiche e mentali per uscire da una sorta di comfort zone, adattandosi a un diverso stile di vita e ai ritmi molto probanti del nuovo contesto.

Leggi anche: Perché il rugby italiano è così com’è

Ovviamente bisogna considerare il reale “investimento” che il club intende fare sul ragazzo. Se si diventa fondamentali, entrando stabilmente nelle rotazioni, si corre il rischio di essere “spremuti” in maniera importante rispetto a quanto accadrebbe nelle proprie franchigie. Basti pensare ai due anni di Sexton (non uno qualunque) al Racing, ben diversi dalla campana di vetro in cui Leinster e la IRFU lo hanno sempre tenuto. Viceversa, non riuscire ad emergere in tempi brevi può significare finire in fondo alle rotazioni del coach e quindi ai margini della rosa.

È una valutazione che, come ha confermato lo stesso Mori nell’intervista rilasciata a OnRugby, può provare a fare soltanto il giocatore e chi gli sta vicino. In alcuni casi i club stranieri – forti di budget nettamente superiori (in Top 14 si arriva fino a 37 milioni di euro) – possono anche permettersi di fare un po’ di pesca a strascico nei confronti di giovani atleti che arrivano da movimenti esteri, assicurandosi talenti non ancora “sbocciati” del tutto ma dotati di grande potenziale, puntando sul fatto che basta ne esploda uno ogni paio di stagioni per ripagare l’investimento.

Se però tutti i tasselli del puzzle si incastrano nel posto giusto, il risultato può essere davvero straordinario. Inoltre, non si può dimenticare che certi treni nella carriera di un giocatore passano una sola volta. E a volte bisogna osare e saltarci su al volo.

Francesco Palma

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