Rugby World Cup 2019: i quattro minuti che hanno fatto tremare il mondo

Di come gli All Blacks sono riusciti a ribaltare in maniera molto All Blacks una partita che li aveva messi spalle al muro

sudafrica all blacks george bridge

ph. Reuters

Gli Springboks sono la nemesi degli All Blacks. Qualsiasi neozelandese vi dirà che la rivalità più grande è quella fra kiwi e figli della rainbow nation, anche più grande di quella trans-tasmaniana con l’Australia.

È un discorso culturale, che oppone due concezioni eccellenti e diverse, e anche un discorso statistico: gli All Blacks hanno vinto più del 70% degli incontri che li opponeva all’Australia, solo (si fa per dire) il 61% delle sfide contro il Sudafrica.

L’ultimo di questi incontri datava luglio 2019: durante il Rugby Championship il Sudafrica, poi vincitore della competizione, si confermava l’avversario più temibile per gli uomini in maglia nera strappando un pareggio in terra neozelandese, nello stesso stadio dove un anno prima era riuscito addirittura a vincere.

Sorte ha voluto che i due grandi nemici si ritrovassero uno di fronte all’altro nelle battute iniziali di questa Rugby World Cup, con grande scoramento, tra l’altro, di noi tifosi italiani.

La partita stavolta l’hanno vinta gli All Blacks, con un 23-13 arrivato come un fulmine a ciel sereno. Proprio quando gli Springboks sembravano riuscire a mettere gli avversari con le spalle al muro, infatti, dominando la partita nei primi 23 minuti, gli uomini di Steve Hansen ribaltavano la situazione con due mete in rapida successione, ergendosi su un cuscinetto di punti sufficiente a rendere vano il tentativo di rimonta dei sudafricani.

A mente fredda rivediamo alcuni dei temi più interessanti dell’incontro, il cui risultato è direttamente figlio di quanto accaduto nel Rugby Championship.

Il punto di partenza

Alla vigilia della partita, nella rituale conferenza stampa che prevede la partecipazione di un assistente allenatore e di due giocatori, lo specialista per la difesa dello staff tecnico di Rassie Erasmus, Jacques Nienaber, ha rilasciato una serie di interessanti dichiarazioni circa gli avversari del sabato seguente e sull’approccio difensivo utilizzato dal Sudafrica.

Nella partita di Wellington, quella del pareggio per 16-16 nel Rugby Championship, gli Springboks erano riusciti a contenere gli All Blacks mostrando un superbo utilizzo della rush defence, una strategia difensiva che, grazie ad una salita veloce e accentuata dei giocatori esterni, chiude le possibilità alla squadra in attacco di giocare al largo. Tantissime squadre di prima fascia utilizzano oggi un certo grado di rush defence, ma in pochi hanno mostrato maggiore successo dei sudafricani.

“Gli attacchi sono diventati troppo forti perché il vecchio sistema difensivo possa funzionare – ha spiegato Nienaber – Non credo che siamo pienamente coscienti di dove questo cambiamento porterà, ma sicuramente ne avevamo bisogno. E dico noi non nel senso di noi Springboks, ma nel senso di noi allenatori della difesa in generale.”

“In passato, come nel 2010/2011, gli attacchi non avevano la sufficiente disciplina e gli avanti non avevano le abilità per mantenere il pallone per decine e decine di fasi. Una cosa su cui i tecnici dell’attacco hanno lavorato: oggi abbiamo avanti capaci di passare, calciare, cambiare angolo di corsa. Quindi noi della difesa ci siamo dovuti adattare.”

A Wellington, gli Springboks avevano ingabbiato la Nuova Zelanda grazie ad un’ottimo utilizzo della rush defence, incentrato soprattutto sulle letture difensive di Lukhanyo Am, un secondo centro dallo spiccato quoziente ovale, come avevamo raccontato in un approfondimento dedicato su OnRugby.

Che i neozelandesi avrebbero però saputo evolversi rispetto a quella situazione è un qualcosa che i sudafricani si potevano attendere: “Gli All Blacks hanno sempre qualche giocata innovativa, o qualcosa di nuovo da portare alla partita – ha detto ancora Nienaber venerdì scorso – Non vedo l’ora di scoprire quali novità metteranno in campo.”

Evadere dal carcere

La prima novità portata sul terreno di gioco da Hansen e soci è nella formazione: solo 4 giocatori su 15 sono confermati rispetto alla pareggio di luglio. Fra questi, la coppia Mo’unga-Barrett, di estrema funzionalità per la squadra, mentre invece sono significative le presenze di Ardie Savea, giocatore che sta attraversando un picco di forma eccezionale e che è decisivo nella segnatura della prima meta neozelandese, e di una linea di trequarti quasi tutta nuova.

Come da sue caratteristiche, infatti, Hansen non fa prigionieri e seleziona tra il numero 11 e il 14 i quattro giocatori che ritiene più in forma e più adatti alla bisogna: fuori Sonny Bill Williams, Jack Goodhue, Rieko Ioane e Ben Smith. Scelte che premiano: Anton Lienert-Brown, solo per fare un esempio, è stato uno dei migliori in campo, come abbiamo evidenziato anche su queste pagine.

Più decisivo, però, è stato l’approccio strategico degli All Blacks, basato principalmente su tre pilastri: utilizzare il piede per riconquistare il pallone, portare il pallone al largo il prima possibile, sfruttare al massimo le situazioni di gioco rotto.

I primi venti minuti dell’incontro fra Sudafrica e Nuova Zelanda hanno visto gli Springboks dominare il campo, sia nel possesso che nel territorio. La loro colpa, e al contempo il merito della squadra kiwi, è stata quella di non riuscire a mettere in cascina più dei tre punti segnati al primo minuto da Handré Pollard.

Poi, dopo 23′, c’è il primo accadimento che rappresenta l’epitome dell’approccio neozelandese all’incontro.

Aaron Smith esegue l’ordine di scuderia di calciare alto ogni volta che la Nuova Zelanda si trova nella zona di campo compresa all’incirca fra i propri ventidue e dieci metri, una strategia comune a molte squadre, in particolare da quella zona laterale di campo.

La pressione che sale è ottima e il contrasto aereo è vinto dai tuttineri, che hanno anche la fortuna che il pallone finisca di nuovo nella mani del loro mediano di mischia, pronto a innescare immediatamente i compagni in una situazione che può già definirsi rotta: senza passare da un punto d’incontro, infatti, la difesa sudafricana è completamente sfalsata.

Am e Makazole Mapimpi salgono comunque forte, nel tentativo di dissuadere l’allargamento del pallone, ma Mo’unga utilizza il piede per aggirarli e portare subito il pallone fuori. È una situazione chiaramente studiata: il calcio-passaggio di Mo’unga non è la soluzione forse più azzeccata in questo caso, ma è una delle armi che gli All Blacks hanno studiato per riuscire a trasmettere il pallone al largo, evitando la salita di Am e Mapimpi che li aveva messi in difficoltà due mesi prima. Infatti, nella prima azione dopo il restart successivo alla meta, Mo’unga riproporrà immediatamente la stessa giocata.

Reece, altro giocatore scelto titolare da Hansen un po’ a sorpresa eppure decisivo, si beve Mapimpi, non certo irresistibile difensivamente. Trova la solita, fantastica linea di corsa interna di Aaron Smith, al cui fianco si materializza Savea, che porta il pallone fino nei 22. Sull’allargamento successivo si può notare l’intenzionale affiancamento dei due playmaker neozelandesi, con Barrett che riceve da Mo’unga per essere lui a scegliere come interpretare la situazione all’esterno.

Il numero 15 la interpreta alla perfezione, “aiutato” anche dalla segnalazione di Bridge, leggendo il mismatch che lo oppone a un accorrente Frans Malherbe, numero 3 sudafricano leggermente in ritardo a chiudere dall’interno il varco tra lui e Eben Etzebeth. George Bridge, parimente, si fa trovare pronto a ricevere il pallone convergendo sul compagno.

Attenersi al piano

Come abbiamo anticipato, il fatto che questa meta degli All Blacks non sia frutto di una intuizione estemporanea dei giocatori in campo, ma di un piano partita accuratamente preparato per punire i rischi presi dalla difesa sudafricana, viene confermato dall’azione immediatamente seguente al calcio di rinvio.

Lienert-Brown riceve l’ovale e va immediatamente a cercare l’avanzamento. Smith gioca per Mo’unga che immediatamente replica la scelta del calcio per Reece, che trova avanzamento con l’assistenza di Savea. Si prova a giocare di nuovo al largo con Barrett, ma stavolta la rush defence funziona e il 15 nero va a contatto.

Il punto d’incontro (da cui comincia il video qui sotto) è poco fuori dai 22, il che prevede calcio dalla base del numero 9 per andare a recuperare il possesso. Sulla pressione di Read, Pollard perde il controllo dell’ovale, che finisce di nuovo nelle grinfie neozelandesi.

Gli All Blacks fanno di tutto per provare a giocare questo pallone immediatamente, ma il passaggio di mani fra Scott Barrett, Ryan Crotty e Aaron Smith è macchinoso, e il Sudafrica stavolta riesce a ricostituire una linea difensiva, in modo da costringere Barrett a fare un punto d’incontro in mezzo al campo.

Un progresso da sottolineare, in questo caso, è la rapidità con cui Mo’unga e Barrett (ma anche i loro compagni) prendono le decisioni, eccellente rispetto a quella della gara di Wellington, dove fu proprio uno dei difetti su cui ebbe occasione di giocare la difesa sudafricana: qui l’estremo kiwi decide in un battito di ciglia che non c’è lo spazio per andare fuori, punta il piede e carica la difesa alla massima velocità.

Si passa attraverso un altro paio di fasi, con i due playmaker che si alternano come primo ricevitore, infine sul pallone gettato all’indietro da Scott Barrett per il fratello nel tentativo di accelerare i tempi, un’altra decisione immediata: salita forte di Am e Mapimpi a sinistra, esplorata con un lungo passaggio per Savea.

Da notare che gli allargamenti immediati avvengono quasi esclusivamente sulla parte sinistra del campo, dove il Sudafrica difende con quei due giocatori, 13 e 11, molto inclini alla salita rapida. A destra, dove invece stazionano più stabilmente due terze linee e Kolbe è molto più restio ad avanzare, le cose si fanno più canoniche.

Sugli sviluppi dell’azione la Nuova Zelanda troverà la seconda meta nel giro di quattro minuti, a causa soprattutto di un errore al placcaggio di Franco Mostert contro Lienert-Brown, ma ciò che è di maggiore interesse è come gli All Blacks sono riusciti a portare il pallone dai propri 22 metri fino alla metà campo, poggiandosi su una precisa impostazione strategica, frutto della precedente sfida fra queste due formazioni.

Portare tutto a casa

Dopo l’uno-due del primo tempo la partita riprende un canovaccio dove a farla da padrone in termini di possesso e, soprattutto, di territorio sono i sudafricani. La Nuova Zelanda però porta a casa il risultato grazie prima di tutto a una superba prestazione difensiva: è la seconda volta nelle ultime quindici partite che gli Springboks segnano meno di 15 punti.

Nonostante la riscossa di inizio secondo tempo, con 10 punti in fila che sembrano riaprire il match, dopo l’ora di gioco gli All Blacks addormentano l’incontro, complice un abbassamento del livello di intensità degli avversari, e chiudono i conti con due calci piazzati.

In maniera tipicamente All Blacks hanno saputo ribaltare una situazione nella quale sembravano spalle al muro, colpendo due volte in rapida successione e aggiudicandosi in questo modo la partita. Spesso le squadre avversarie finiscono per sciogliersi di fronte a momenti come questo, suscitandone altri: va dato credito al Sudafrica di non aver perso la testa e aver tenuto il bandolo della matassa, finendo sconfitto ai punti, senza andare KO.

Anche perché, sia presto detto, se queste due squadre dovessero incontrarsi di nuovo in questa Rugby World Cup (chi ha detto finale?) saranno probabilmente gli uomini di Erasmus a poter trarre maggiori insegnamenti da questa partita e portarli in campo alla prossima sfida.

Un Sudafrica più cinico, capace di convertire in punti il dominio territoriale, meno incline agli errori gestuali (brutta partita per Faf de Klerk) e magari con un difensore più solido e meno facile da esplorare rispetto a Mapimpi rappresenta ancora il peggiore incubo di Steve Hansen e dei suoi All Blacks.

Lorenzo Calamai

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