What a Shane!

La leggenda di Shane Williams: troppo piccolo per giocare a rugby…

Action Images / James Benwell Livepic

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“Ma fai il bravo, Mark, metti via quei soldi e vai a scolarti un po’ di pinte, fai un piacere”

“No, le 50 sterline le gioco come e quando voglio”

“Ascolta: siamo famosi da queste parti per accettare ogni tipo di scommessa. Ma vuoi proprio che ti dica che la tua è un suicidio? Tuo figlio recordman di mete col Galles? Ma se l’hanno già cacciato una volta dalla squadretta perché troppo mingherlino! Tu sei pazzo!”

“Tu prendi sti soldi e poi ne parliamo”. Tac, 500 a 1. Grazie e arrivederci.

Si, in Gran Bretagna ogni cosa può essere scommessa, dal nome del prossimo pargolo del principe alle volte in cui riuscirai a entrare in camera della signorina Smith, vostra compagna di classe al liceo e non propriamente conosciuta per il suo cammino di redenzione e purezza. Basta presentarsi in un apposito ufficio, spiegare su cosa e quanto scommettere, lasciare i soldi. E poi aspettare, al limite ritirare la vincita. Il buon Mark non fa niente di diverso, prende 50 sterline e scommette che il figlio, un giorno, batterà il record di mete segnate con la maglia del Galles. Dite la verità, un po’ state pensando a quei padri che inveiscono sulla loro prole durante le partite alle nostre latitudini, quelli che hanno figliato i prossimi Maradona, Van Basten o altro. Ecco, qua la cosa non è tanto diversa, solo che qualche soldino i papà, quando non si fanno prendere da troppi voli pindarici, riescono a farlo.

Come Gerry McIlroy, padre di Rory, fenomeno del golf.

Come John Morrey, zio di Wayne Rooney, unsung hero della Nazionale inglese di calcio.

Come riesce a fare il nostro Mark, che di cognome fa Williams e una ventina d’anni prima ha messo al mondo un ragazzino con la faccia da simpatica canaglia e che a fatica arriva al metro e settanta. Uno che il rugby ha rischiato di salutarlo per sempre quando un allenatore gli disse “Sei troppo piccolo, vai a giocare a calcio”. Uno che il rugby ha rischiato di salutarlo ogni volta che ha messo i piedi in campo contro avversari grossi il doppio di lui, a volte anche di più. Uno che adesso il rugby saluta ogni giorno con più amarezza, perché uno come il figlio di Mark forse, con questi chiari di luna, non passerà più. Il figlio di Mark si chiama Shane, Shane Williams, e questa è una di quelle storie di cui si rischia sempre di innamorarsi. Perché quelli che nella loro carriera, e nella loro vita, hanno una seconda chance hanno sempre una discreta storia da raccontare. E perché quelli che riescono ad entrare nella storia di uno sport ruvido e senza tregua come il rugby senza però essere apparentemente Superman meritano sempre una birra pagata nel nostro personalissimo bar.

“Sei bravo, perché sei bravo..ma uno come te con noi si fa male. Vai a giocare a calcio!”E se ricevi una botta del genere quando sei un imberbe liceale rischi di rimanerci. Shane no, prende e va a giocare a calcio. Portiere. Perché neanche dalle parti di Swansea non si salta di gioia all’idea di voler giocare in porta. Non si è mai visto ai nostri tempi un portiere alto 170 centimetri compresi i tacchetti. Lui però lo fa, e neanche tanto male, visto che porta la squadra in finale.

Lo vengono a vedere dei suoi amici, poi spunta una palla ovale. Spunta sempre una palla ovale tra amici, a Swansea e dintorni. E qualcuno gli dice: “Oh ma vieni anche tu a Neath”

“Ma non ci sono grandi squadre di calcio a Neath”

“E chi ha parlato di calcio? Te sembri nato con la palla ovale in mano

Non è che se lo faccia ripetere ancora tante volte.

Sta di fatto che da quelle parti forse ancora si chiedono che fine abbia fatto quel portiere piccolo piccolo, ma che non ha mai rifiutato un’uscita spericolata. Ma forse è giusto così. Anche perché alla prima partita importante questo segna 5 mete e comanda la mischia come pochi avevano fatto fino a quel momento.

Come la mischia?

Già, perché viste le minute proporzioni gli mettono la maglia numero 9, a Neath sarà la riserva finché coach Lyn Jones si fa due domande, si gratta un po’ la testa e poi sbotta: “Ma uno così come faccio a tenerlo fuori?” E lo mette all’ala.

Chiudete pure tutto.

Shane sarà pure piccolo e neanche tanto muscoloso, ma lavora benissimo su quelli che possono essere i suoi punti deboli. E sfrutta alla grandissima quel che Madre Natura ha dato in abbondanza: ha una coordinazione psico-motoria tale da permettergli di essere competitivo in qualsiasi sport decida di praticare. Non è velocissimo, ma ha uno scatto da centometrista e appoggi che su un campo da rugby in pochi avevano portato e provato fino ad allora. Sembra che lo prendi, ma questo ti ha già lasciato lì. È come quando Garrincha e gli altri brasiliani con ascendenti indios dovettero mutuare alcuni movimenti dalla capoeira per non farsi picchiare (cosa molto più che tollerata) da certi difensori bianchi. È il crossover di The Answer, al secolo Allen Iverson, un altro piccoletto che sul parquet ha messo a sedere giganti e dileggiato Michael Jordan grazie ad un cambio di velocità e di passo mai più visti a quei livelli. Shane è tutto questo, a parte una vita privata molto più tranquilla e morigerata degli altri due, visto che sposerà la fiamma del liceo. Ma non è tutto qui: il ragazzo sa giocare al piede (a Neath lo facevano pure piazzare) e placca come un demonio. Per referenze chiedere a Matt Banahan, ala inglese che gli dà 35 chili e 30 centimetri, che ancora si sta chiedendo cosa si sia messo tra lui e la linea di meta quel giorno. O a chiunque altro si sia fatto ingannare dalla stazza dell’eterno ragazzino.

Uno così, per forza di cose, va a finire in Nazionale. Debutta nel 2000, segna al suo primo match da titolare, contro l’Italia. Fino al 2003 giocherà poco coi Dragoni, si mettono di mezzo infortuni e uno Steve Hansen (QUELLO Steve Hansen) che non lo vede tantissimo. A quella Coppa del Mondo il ct neozelandese lo fa debuttare contro gli All Blacks per far rifiatare la squadra titolare che se la vedrà poi con l’Italia per passare ai quarti. Ecco, contro i tuttineri il Galles delle riserve fa la partita più bella del Mondiale, mette più di qualche tarlo nella testa degli avversari e Shane Williams segna anche una meta. Steve Hansen si rifarà, come allenatore, nel dubbio il piccoletto con la maglia numero 11 si gioca i quarti da titolare. Il primo tempo è uno spettacolo, la Nazionale dalle 3 Piume gioca a tutto campo e fa venire i brividi ai bianchi d’Inghilterra. Solo che quelli hanno il battito di Fausto Coppi a riposo, una condizione psico-fisica invidiabile e un biondino di nome Jonny al timone. Non è cosa, per il momento. Gli uomini diWoodward portano a casa la partita nella ripresa, ma quell’11 rosso lo cominciano a conoscere e riconoscere tutti. Se ne rendono conto anche a Swansea, e allora dal 2003 debutta anche nella Celtic League con gli Ospreys.

Galles e Ospreys. Finché rimane in Europa non giocherà con altre squadre.

Il ragazzo miete vittime e segna mete in ogni dove, ma la consacrazione arriva nel 2005: il Galles porta a casa il Grande Slam, lui segna al debutto contro l’Inghilterra, poi si ripeterà contro Italia e Scozia e vola in Nuova Zelanda con i Lions. Segnerà qui il suo record di mete in un incontro internazionale, 5 contro Manawatu, ma il tour vede i Lions bastonati dagli All Blacks e da una serie di convocazioni perlomeno poco chiare. Nel 2007 al Mondiale segna una delle sue mete più belle nel giorno forse più triste del rugby gallese, quello della sconfitta con le Fiji. Shane è un leone contro quei giganti, sembra il Tomba degli anni d’oro tra i paletti di Schaldming, ma non basta, è proprio quella Coppa del Mondo ad essere nata male, come d’altronde tutta la stagione.

Si rifarà nel 2008, eccome se si rifarà.

Warren Gatland, il nuovo ct, non mette troppo le mani sulla squadra, ma crea un clima in cui tutti riescono a dare il massimo. All’esordio battono gli inglesi a Twickenham in rimonta. La cosa porta bene. Arriva un altro Grande Slam, Shane è praticamente inarrestabile. Segna 6 mete nel torneo ed è eletto giocatore del torneo. L’ultima meta segnata alla Francia gli permette di superare Gareth Thomas per mete segnate con la maglia gallese. 41 a 40. Gareth Thomas era il primo in classifica, all’epoca.

“Signori buongiorno, sono Mark Williams, non so se vi ricordate di me. Avevo scommesso che mio figlio avrebbe fatto più mete di tutti, qui in Galles. Mio figlio si chiama Shane, sarei venuto a ritirare la vincita.  Ecco la ricevuta”.

Ecco, fate 50 sterline per 500 e fatevi offrire una birra, se capitate da quelle parti.

Shane non si ferma lì, arriverà a 58 mete in rosso, è tutt’ora il quarto metaman di tutti i tempi dietro a Daisuke Ohata, David Campese e Bryan Habana. Le ultime due le segnerà all’Australia nel 2011, in due partite dai diversi significati. La prima è la finale per il terzo posto del Mondiale, la seconda è il classico test autunnale organizzato dai gallesi a dicembre. Il Mondiale 2011 mostra forse il Galles più bello degli ultimi anni, una squadra giovane e dal talento smisurato. Una squadra che sta cercando di fare a meno di Shane Williams, che ha deciso di abbandonare la maglia con le Tre Piume. Gatland ci proverà più volte a farlo tornare sui suoi passi, ma l’uomo ha deciso. Riuscirà in verità a farlo vestire di nuovo di rosso, ma la maglia è quella dei Lions nel Tour australiano del 2013, contro i Brumbies. Perderanno quell’incontro, ma Shane è forse uno dei pochi a voler dare un senso a quell’incontro. In campo sembra sempre lo stesso,  guizzante, indemoniato. Sembra abbia abbandonato l’Europa ovale l’altro ieri. Ed è emblematico il fatto che la maglia numero 11 con le Tre Piume se la prenderà poi George North, armadio a sei ante degli Scarlets, l’ala più pesante che il Galles abbia mai avuto, segno di un rugby fatto sempre più per i pesi massimi e sempre meno per chi, oltre a muscoli e centimetri, ha sempre cercato di arrivare ai cuori di tutti con fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. La mente, il genio, prima del braccio.

Shane se ne va a giocare in Giappone nel 2012, ma prima regala una ultima gioia ai suoi Ospreys, con i quali ha già vinto due titoli. In semifinale fanno piangere il Munster, poi arrivano in finale contro il mostruoso Leinster di O’Driscoll e compagni, dato largamente per favorito. Solo che proprio Williams tira fuori dal cilindro gli ultimi due conigli dal cilindro, uno dei quali quasi allo scadere. Dan Biggar trasforma e firma il sorpasso, gli Ospreys sono ancora campioni. Shane è ancora campione, nonostante abbia rischiato di salutare il rugby per sempre quando un allenatore gli disse “Sei troppo piccolo, vai a giocare a calcio”. Nonostante abbia rischiato di salutare i suoi amati rimbalzi irregolari ogni volta che ha messo i piedi in campo contro avversari grossi il doppio di lui, a volte anche di più. Ora è il rugby a salutarlo ogni giorno con più amarezza, perché uno come il figlio di Mark, forse, con questi chiari di luna e questo tipo di rugby, non passerà più. Almeno per un po’.

Almeno finché qualcuno non passerà di qui a ricordarci che muscoli e cervello avranno sempre partita dura contro fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione (Il Genio, per farla breve e se avete visto “Amici miei” almeno una volta nella vita).

Noi ci scommettiamo. Al limite ci troviamo al pub con la ricevuta.

 

Cristian Lovisetto

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