Rugby femminile: stesso gioco, stesse regole ma identità diversa

Inizia quest’oggi un viaggio alla scoperta delle peculiarità della palla ovale rosa. A guidarci Alessandro Vischi

inchiesta


1969
«Il rugby è controindicato per le giocatrici, ragazze e donne, per delle evidenti ragioni psicologiche. Questa pratica è dannosa sul piano fisico e morale…» Colonello M. Crespin direttore nazionale dell’educazione fisica e dello sport (Francia).

2014
La Francia organizza, con enorme successo di pubblico, la Coppa del Mondo di rugby femminile.

 

 

Per chi come me ha giocato a rugby a Milano, per tanti anni il rugby femminile è stato identificato con il Rugby Rosa a Rho e le Ringhio di Monza. Le mie conoscenze sul rugby femminile si sono limitate a queste due informazioni per diversi anni. Senza aver mai assistito ad una partita, ho pensato che le donne giocassero lo stesso rugby degli uomini, più lentamente e con meno potenza fisica. Fortunatamente si evolve. Ho iniziato a seguire il rugby femminile guardando i match della coppa del mondo giocata in Francia e poi le partite del massimo campionato francese (Top 8). Recentemente Gianfranco Ermolli (ex allenatore della nazionale femminile italiana, campione di Francia in carica di rugby a 7 con la squadra femminile del liceo in cui insegna) e Sylvie Bros (ex giocatrice e arbitro internazionale, responsabile dello sviluppo del rugby femminile nella regione midi-pyrenées) mi hanno guidato alla scoperta dell’identità femminile del rugby.

 

Gianfranco ha vissuto la nascita del rugby femminile in Italia: “Negli anni ’80 era una cosa abbastanza folcloristica. Le cose sono cambiate: negli anni le ragazze hanno acquisito consapevolezza e hanno capito che non dovevano imitare il gioco degli uomini, hanno portato la femminilità, la progettualità e la capacità di essere donna all’interno del campo. Il problema – continua Gianfranco – è che per degli occhi abituati ad uno spettacolo televisivo come il Top 14, dove la potenza ha sempre più importanza il rugby femminile può sembrare poco interessante. Invece questa differenza è una ricchezza. Assistere ad una partita è molto piacevole”.

 

Sylvie aggiunge la sua testimonianza di ex giocatrice ad alto livello sul cambiamento avvenuto nel corso degli anni: “Quando ho iniziato a giocare molte delle ragazze pensavano che il gioco dovesse somigliare a quello degli uomini. Poi sono arrivate delle vere sportive: il rugby rimane uno sport di combattimento come per gli uomini, ma giocato da donne”. Secondo Sylvie non c’è un vero e proprio maschilismo che frena lo sviluppo del rugby rosa, ma dei preconcetti. Ciò nonostante, e potrebbe apparire strano, è una regione del sud della Francia quella che traina tutto il movimento femminile. Anche se i temi di allenamento sono gli stessi tra ragazzi e ragazze, l’approccio è differente: “Per esempio – mi spiega Sylvie –  in una regione rugbysticamente evoluta come quella in cui opero i ragazzi pensano di avere già una risposta, faticano ad accettare di dover imparare mentre le ragazze sono più recettive ed hanno voglia di mettere in pratica subito quello che viene detto loro”. Gianfranco aggiunge: “La mia esperienza personale mi porta a constatare che le ragazze svolgono con piacere l’attività di perfezionamento delle abilità tecniche e di fronte a problemi tattici danno una risposta che implica la costruzione di un linguaggio motorio comune collettivo”.

 

La vera differenza non è fisica ma nell’approccio al gioco. Le ragazze hanno un’altra visione della dimensione collettiva. Chiedo a Sylvie di farmi qualche esempio per capire meglio questa diversità. “Quando un ragazzo prende un cartellino giallo per una zuffa ne è quasi fiero, gonfia il petto uscendo dal campo. Una ragazza esce a testa bassa e si scusa con le compagne. – E ancora – in una situazione di 1 contro 1 i ragazzi prediligono lo scontro diretto, mentre le ragazze cercano una soluzione alternativa, spesso cercando una partner”. Questa diversità nell’approccio non è né positiva né negativa. Semplicemente si riflette nel tipo di gioco proposto. A questo si aggiunge anche la diversa struttura fisica: il pallone utilizzato è lo stesso degli uomini, ma difficilmente le giocatrici calzano un 43, quindi il gioco al piede ha un ruolo diverso nell’economia della partita. Gli spettatori, ex giocatori, possono ritrovarsi in questo rugby simile a quello di qualche anno fa nel quale lo scontro frontale aveva una minore importanza. Gianfranco conclude la nostra chiacchierata mettendo in risalto quella che ritiene la grande ricchezza del rugby femminile: lo spirito di appartenenza. Le ragazze nascono rugbysticamente e crescono nello stesso club, i cambi di casacca sono piuttosto rari. Per gli uomini si sta assistendo ad una sorta di sfilacciamento, una perdita dell’identità e delle radici. In Francia, c’è stata un’evoluzione stupefacente dal 1969 al 2016. Nel corso di questa inchiesta vi presenterò due eccellenze nel rugby femminile francese e vi racconterò il dinamismo di un bel progetto italiano.

 

Di Alessandro Vischi

Veterinario, ex giocatore del CUS Milano e dell’ASR Milano, educatore del minirugby e arbitro. Da tre anni vive a Tolosa. Per OnRugby ha realizzato anche l’inchiesta in cinque puntate “Rugbisti italiani verso la Francia” (parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5).

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