Nel rugby che fu, trovando un po’ di spazio anche a Nereo Rocco

In un mercatino dell’usato a Venezia Marco Pastonesi ha trovato un libro di qualche anno fa. Imperdibile

ph. Sarah Williams/Action Images

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Acciaio era il soprannome di Giorgio Troncon, Greca quello di Giorgio Fantin, Catin quello di Lorenzo Carnio. Catin-Carnio che, finito di giocare, cominciò ad arbitrare, e uno dei suoi comandamenti gli fu dettato da Julien Saby: “Ricordati che prima è nato il gioco e dopo il regolamento”, cioè “Non innervosire mai le partite con fischi a sproposito”, cioè “Se inizi a fischiare troppo, la partita diventa una sinfonia di Beethoven”. Catin-Carnio che, finito di arbitrare, cominciò ad allenare, e all’esame, alla domanda “Quand’è una squadra in attacco?”, rispose “Quando ha il pallone in mano”, e venne promosso.
Su una bancarella dell’usato, a Venezia, ho pescato “Quarto tempo” di Prando Prandi (2010, Compiano editore di Treviso, 286 pagine, 20 euro). E’ un libro di rugby, sul rugby, per il rugby, non solo a Treviso. E’ un libro di storie, storie di giocatori e di partite, di trasferte e di famiglie, di squadre e di società, non solo a Treviso e dintorni. E’ un libro di quelli che si possono aprire a qualsiasi pagina e cominciare a leggere, precipitando in un campo, in un clima, in uno spogliatoio, in un campionato, in una giornata ovale. E in un mondo che – se si gira, se si scava – esiste ancora nella sua semplicità, nella sua allegria, nella sua purezza.

 

Catin-Carnio, per rimanere con la sua gloriosa Faema anni Cinquanta. A quei tempi il rugby condivideva lo stadio Tenni con il calcio: e i rugbisti erano i parenti poveri dei calciatori. Quando Catin-Carnio, pilone, chiese un paio di scarpe a Nereo Rocco, el Paron gli disse di aspettare un attimo: “Sta qua che vedo, perché Vascellari xe grande e groso e el gà sempre un per de scarpe de riserva che ghe vanza”, e infatti le scarpe c’erano, e Catin-Carnio se le adattò infilandosi un paio di calzettoni in più. E quando Catin-Carnio, in un gelido pomeriggio d’inverno, si lamentò delle docce fredde dei rugbisti e invece di quelle calde dei calciatori, Nereo Rocco gli disse: “Speta, mulo, che noi finimo e po’ podé far la docia calda anche voi nel nostro stanzon”. E per ricambiare il favore, Maci Battaglini sparava palloni nella porta difesa da Bepi Moro.

 

E allora quella volta che Ennio Caccia, prima giocatore, poi medico Metalcrom e Benetton, qualche punto nella squadra che conquistò il tricolore lo fece anche lui, suturando con infinita pazienza l’orecchio mezzo staccato del neozelandese Glen Rich. E allora tutte quelle volte che Arturo Zucchello, di fronte a scontri violenti e ferite profonde, minimizzava “Tìrate su che non te ga niente”. E allora tutte quelle volte che si diceva “xe Giobbe”, parola d’ordine segreta per dire di non preoccuparsi, ché era tutta una scena per respirare qualche secondo. E allora quella volta in cui Treviso, per risparmiare, spedì la squadra a Catania in corriera. E allora quella volta che tutto il Treviso pianse di rabbia nello spogliatoio dopo una sconfitta contro il Rovigo. E allora quella volta che Guido Rossi non riuscì a festeggiare l’esordio in Nazionale perché si era grattugiato con la sabbia sparsa sul Flaminio fradicio di pioggia. E allora quella volta che Oscar Collodo, non più da giocatore ma da tecnico, si è sentito dire da un ragazzino, dopo una partita contro una rappresentativa inglese: “Sai, Oscar, mi sono sentito molto bene oggi in campo, perché sono convinto di aver dato il mio cento per cento”, per poi aggiungere: “Ma quel che più mi stupisce è che non pensavo di avere un cento per cento”.

 

di Marco Pastonesi

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