Quando il rugby ha il sapore (anche) dei tortellini: il Rugby Valeggio

Marco Pastonesi questa settimana ci porta nel cuore della Valle Padana, nel veronese, dove c’è una società giovane e robusta

ph. Elena Cozzolotto – dal sito del Rugby Valeggio

Come giorno per la nascita ne è stato scelto uno più adatto alle morti: il 2 novembre. Ma si trattava solo di un atto notarile, perché l’atto di coraggio – trasgredire le regole del pallone rotondo e adeguarsi a quelle più bizzarre ma anche più valorose del pallone ovale – risale al gennaio di quello stesso anno, il 2005. Rugby Valeggio. A Valeggio sul Mincio, a 25 km da Verona, secondo l’etimologia antica valle degli dei o forse soltanto valle piana.
Condizioni ideali per tracciare un rettangolo (valle piana) e alzare quattro pali al cielo (valle degli dei). “Ma se raduniamo un gruppo di ragazzi, poi tu vieni a insegnarci a giocare a rugby?”. La richiesta non risale ai primi del Novecento, ma appunto ai primi del Duemila. Questa la domanda di Igor Cressoni, valeggiano. E questa la risposta di Francesco Bambusa, con esperienze nella prima squadra del Cus Verona: “Sì”.
Sette-otto amici, neofiti, sedentari, raccolti al bar, convinti per strada. Invece di perdersi, il gruppo si è allargato, si è alzato, si è esteso, e per farla breve, otto anni dopo, oltre alla prima squadra (il primo campionato, girone a quattro, targato Csi, adesso serie C comitato veneto), ci sono Under 6, 8 e 10 complete, Under 12 incompleta, Under 14 e 16 mancanti, ma un’effervescenza, una fiducia, un ottimismo che spalancano il cuore.

 

Igor (il nome russo l’ha deciso il padre dopo aver letto “Guerra e pace” di Leone, altro nome che suonava bene, Tolstoi), adesso 35 anni e seconda linea (attualmente fermo ai box), è il presidente dei valeggiani. I fondatori della prima ora si sono sdoppiati, giocatori in braghe corte e dirigenti in pantaloni lunghi. Insomma: Cristo e gli apostoli, seppure con le dovute differenze. In fondo, il rugby è una religione. Ma pensieri e parole, e qualche miracolo, hanno dato i loro frutti: perché già quattro anni fa, grazie al Comune, è sorto un campo soltanto per il rugby. Come spogliatoio si adottano quelli dei campi da calcio, come club house si usa una stanza prestata dal circolo del tennis. Ma c’è il progetto di uno spogliatoio nuovo e di proprietà, c’è il circolo del tennis che mette a disposizione la cucina per il terzo tempo, e c’è anche che la stanza prestata sia stata arricchita da maglie, cravatte e palloni, simboli di una storia fresca ma già cosciente e coscienziosa.
Il rugby italiano non è un capitano come Parisse o un guerriero come Castrogiovanni, ma una società come il Valeggio. Con la sua opera di evangelizzazione nelle scuole elementari e medie, con l’inserimento e l’integrazione (c’è anche un ragazzo ghanese, in prima squadra), con la saggezza di un allenatore da campo (Daniele Bennati, solo omonimo del campione di ciclismo, ma anche lui, nel suo genere, pedala forte), con la forza delle cene e delle lotterie, dei concentramenti di minirugby e delle quote associative, anche con un contributo comunale, e con le morose di tre giocatori che adesso allenano (le morose, non i giocatori) i più piccoli fra i minirugbisti.

 

Maglie rossoblù, perché il rosso e il blu sono i colori di Valeggio; simbolo uno scudo che sposa il castello scaligero e il ponte visconteo; urlo “Valeggio!” (il capitano) “tacài” (i giocatori), “tacài” significa “attaccàti”, nel senso di stare uniti, solidali, insieme. A Valeggio – 15 mila abitanti – c’è un’enciclopedia di sport, dal calcio al basket, il bello è che l’atleta più celebre è Francesca Porcellato, che è nata a Castelfranco ma abita a Valeggio, campionessa olimpica e mondiale in atletica e sci di fondo, in carrozzina. Ma se adesso la gente va al rugby è per questo spirito un po’ santo e un po’ goliardico, un po’ divino e un po’ di vino del Rugby Valeggio. E forse anche per questo profumo di tortellini, la specialità della zona (tant’è che anche Cressoni lavora nel settore). Una leggenda narra di una ninfa, di un principe, di un nodo al fazzoletto come pegno, e quel nodo ha la forma del tortellino. La storia è quella di una importazione durante la Seconda guerra mondiale dall’Emilia, il piatto è domenicale, il ripieno è la carne avanzata durante la settimana. Piatto povero, buono e bellico. Tre ingredienti rugbistici.

 

di Marco Pastonesi

 

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