L’Australia di Alan Jones, il fattore-Gucci e il tavolino di Sua Maestà

Marco Pastonesi ci racconta di come gli australiani impararono a faticare grazie a un aneddoto dello stilista italiano. E di come la Regina Elisabetta li salvò dall’imbarazzo

ph. Anthony Devlin/Action Images

Ricordate le birre di Nick Farr-Jones e le domande di Alan Jones? Se non le ricordate, andate a ripassarle, o a scoprirle, sulla rubrica di una settimana fa. Se le ricordate, allora possiamo tornare su quel segreto quasi italiano accennato e non svelato.
Alan Jones, “coach” dei Wallabies, ci sapeva fare: bastoni e carote, incoraggiamenti e prediche, “up-and-under” e al largo. Nick era stato colpito nella maniera giusta: “Io avevo bisogno di un bel calcio nel culo, Michael Lynagh di una parola buona. Jones sapeva come tirare fuori il meglio da chiunque di noi. E quando si accorse che era l’intera squadra a richiedere una strigliata o una lisciata, un’orazione o una lezione, per esempio dopo un allenamento particolarmente scarso a Swansea prima del primo test-match contro l’Inghilterra, Jones ci fece questo discorso.
“Ragazzi, vi voglio raccontare la storia di un ragazzo. Aveva diciassette anni, era italiano, e si chiamava Gucci. Una sera suo padre andò da lui e gli disse: ‘Figlio mio, stai arrivando a quella età in cui si decide quello che si farà nella vita’. ‘Be’, papà – rispose il figlio – ci ho pensato e quello che farò sarà nel mondo dell’abbigliamento’. ‘Fantastico, figlio mio – lo incalzò il padre -. Sono veramente felice che tu abbia preso questa decisione. Ma sfortunatamente, qui in Italia, tutti lavorano nell’abbigliamento e tu non sarai in grado di competere’. ‘Be’, papà – fu la pronta replica del figlio -, ho pensato anche a questo. Quello che farò sarà usare solo i migliori prodotti, i migliori disegni e i migliori sarti. Così sarò in grado di competere, perché avrò veramente i migliori prodotti da vendere’. ‘Figlio mio, sono davvero felice, perché sembra che tu abbia pensato proprio a tutto. Ma sfortunatamente c’è un piccolo problema. Se tu usi il meglio di tutto, avrai anche i prezzi più alti di tutti. E nessuno potrà acquistare i tuoi prodotti’.
La risposta del figlio è quella che dà un senso alla vita, alla sua e forse anche alla nostra, alle vostre, e al rugby. Il figlio si rivolse al padre e gli disse: ‘Sì, padre mio, ma poi il prezzo si dimentica, e la qualità rimane’. Ecco: questo era il fattore Gucci”.

 

Un segreto, una formula, un comandamento. Che ha funzionato. Alan Jones tradusse per i meno svegli: “Lavorate duro adesso. Dimenticherete fatica e dolori, ma i miglioramenti rimarranno”. Fango, sudore e lacrime. Colpi duri. Stringere i denti aiuta sempre. Prima o poi, qualcosa tornerà sempre indietro. Ma nonostante Alan Jones, e nonostante Gucci, ci fu un’occasione – in quel tour in Gran Bretagna – in cui i Wallabies si trovarono, se non in difficoltà, in grave imbarazzo. Fu quando vennero ricevuti dalla Regina a Buckingham Palace. Anche se quel giorno Sua Maestà, forse proprio per non rendere la cerimonia troppo ufficiale, si presentò quasi “casual”: non aveva corona, né abito brillante, e neppure i guanti. I Wallabies erano stati istruiti come si conviene: a uno a uno in fila indiana, stretta di mano soffice, e “pleased to meet you, Your Majesty”. Quando la Regina domandò se stessero godendosi il soggiorno in Gran Bretagna, gli australiani annuirono vistosamente e risposero, in coro, di sì. In quell’istante si sentì un suono che gelò i giocatori. Veniva da dietro. Chris Roche si era appoggiato a un tavolino del Seicento. Impreparato a sopportare quel peso, il tavolino si ridusse in pezzi e schegge. Fu la Regina a recuperare la situazione: “Non preoccupatevi. Il magazzino ne è pieno”.

 

PS: i fatti si riferiscono al 1984, e il Matt Burke citato nel pezzo non è quello nato a Sydney nel 1973, ma quello nato a Gosford nel 1964. L’omonimia ha creato confusione. Chiedo scusa ai lettori.

 

di Marco Pastonesi

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