Brendan Foley, il guerriero di Munster che mise ko gli All Blacks

Marco Pastonesi ci racconta la storia di un seconda linea cresciuto in una Irlanda che oggi non c’è più. Dall’infanzia fino alla Partita

ph. Paul Harding/Action Images

Giocava a pallone, Brendan. Su un campetto di erba. Oppure sulla strada. Qualche volta erano anche in quaranta o in cinquanta a rincorrere il pallone, su e giù per la strada: bambini di dieci anni fino a uomini di cinquanta o sessanta.
Giocava a hurling, Brendan. In un giardino, in un parco, in un orto botanico. Lui e gli altri prendevano rami e li trasformavano in bastoni, e randellavano, e certe volte si randellavano, ed è anche capitato che squarciassero orchidee e rompessero vetri.
Poi cominciò a giocare a rugby, Brendan. Andò così: un giorno, quando aveva quattordici anni, con altri quattro o cinque andò a vedere quelli che si allenavano al rugby club di St Mary. Si chiamavano The Saints. E da sempre, in tutta la loro storia, i Saints venivano cacciati dai campi in cui giocavano. Come se avessero una malattia di quelle inguaribili e perdipiù contagiose. Che fosse proprio il rugby?, si era chiesto Brendan, senza neppure cercare una risposta.
Il campo era quello che era, lo spogliatoio era quello che non era, perché per fare la doccia i giocatori di St Mary si tuffavano nell’Abbey River o s’immergevano in una tinozza di zinco, e la clubhouse era quello che non si poteva neanche immaginare. Non c’era luce, solo una lampada a paraffina, non c’era gas, solo un sacco di carbone da ficcare in una stufa e bruciarlo per stare al caldo, e non c’erano sedie, ma solo un paio di panche. I Saints la chiamavano la Casbah. Forse fu proprio per la Casbah che Brendan s’innamorò del rugby.

 

Infanzia dura, per Brendan. Da piccolo abitava con il padre e la madre e il fratello George in una casa, non proprio, in un appartamento, neanche, insomma in una stanza in affitto. E quando la madre stava per dare alla luce il terzo figlio, venne acquistata una tenda e posta in mezzo alla stanza per dividerla in due. Poi però crebbe con una zia, Brendan. Perché la madre morì durante quel parto. Ma era in gamba, la zia. Aveva un marito che a casa si faceva vedere poco per via del lavoro, così questa donna, da sola, teneva quattro figli in riga e in qualche modo metteva insieme pranzi e cene.
A dire la verità, non era granché come giocatore di rugby, Brendan. Almeno all’inizio. Sembrava svogliato, o addirittura pigro. Nelle ruck, nelle maul, nel sostegno era sempre l’ultimo ad arrivare. Finché un giorno dev’essere scattato qualcosa. Forse per orgoglio, forse per maturità, forse soltanto per comprensione del gioco o, meglio, dello spirito. Così Brendan passò a Shannon, e intanto guidava un pulmino perché aveva scoperto di amare gli spazi liberi e le strade aperte e gli orizzonti lontani. E il giorno in cui venne richiesto da Munster, amici e compagni organizzarono in suo onore una grande festa: Brendan era il primo giocatore di Shannon a passare a Munster negli ultimi dieci anni, il secondo in assoluto nella storia del club dopo Mick Hayes. Ma bisogna considerare che Mick era un’autentica leggenda.

 

Pensava di avere toccato la luna, Brendan. Invece ci fu un giorno in cui arrivò addirittura più in alto. Fu quando venne convocato per giocare contro gli All Blacks. Munster-All Blacks. Per giocare quella partita, Brendan ottenne di poter lavorare solo mezza giornata. Così si alzò presto, andò per pub e negozi a vendere le sue scatole di minerali, e alla gente lo fermava per chiedergli come sarebbe andata, se Munster avesse qualche possibilità, lui rispondeva che ce l’avrebbero messa tutta. Perdere, ma combattendo. Questa era la tradizione, a Munster. E Brendan, Brendan Foley, quel giorno combatté, e alla grande.

 

di Marco Pastonesi

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