Hic sunt feles, ovvero il rugby come lo si declina in quel di Vicenza

Marco Pastonesi ci racconta una storia di ultras al contrario, fatta di trasferte che non hanno limiti

E’ una squadra nata tre anni fa e fatta di novantanove giocatori, ex giocatori e – soprattutto – non giocatori, uomini e donne con molti fuoriquota, terze linee, settore terziario e terzotempisti, che più che in campo o in panchina sta in tribuna o a tavola, eppure abita, respira, vive, parla e ride di rugby, e con il rugby si trova e si ritrova. E’ il Rugby Fan Club di Vicenza, aperto a tutti, anche alle morose, ventiquattr’ore su ventiquattro come il Colosseo. Colori bianco e rosso, motto “Hic sunt feles”, in cui “hic” non è il singhiozzo dell’ubriaco ma il latino “qui”, il resto significa “stanno i gatti”, perché i gatti sono il simbolo di questa provincia dall’accento veneto, dalle ville palladiane, dal vino che ha sempre accompagnato i Colli Berici, dal calcio che ha sempre soffocato il rugby, dal rugby che era praticato da quattro gatti finché adesso i Rangers Rugby Vicenza in quattro anni sono saliti dalla C2 all’A2 senza raccomandazioni se non quelle al dio del rugby, William Webb Ellis in persona e in contumacia. Quota annuale 15 euro, che dà diritto a un bel niente, e dunque non è bene chiedersi che fine fanno quei soldi, perché tutto dev’essere comunque autopagato, autofinanziato, più o meno autorizzato, in qualche modo autogestito.

 

Dalla presenza sugli spalti di casa alle trasferte dovunque siano, anche in Sicilia o in Sardegna, via macchina, via treno, via aereo, purché via altrimenti non sarebbero neppure trasferte. Dalla cena annuale (una, a pensarci bene, è una cifra anoressica) alla premiazione, durante la stessa cena, di un giocatore del Vicenza che abbia giocato con il cuore, il che non è difficile trovarlo, perché il Vicenza ha sempre giocato con il cuore e un po’ meno (ma come tutti) con la testa. Dal sostegno alla passione per la stessa squadra, a prescindere (anche se non si sa esattamente da che cosa). Perché il Rugby Fan Club di Vicenza ha un codice etico (che non stiamo qui a commentare) e anche un codice etilico (che non stiamo qui a descrivere), e qualche volta i due codici coincidono, soprattutto quando si tratta dell’enoteca Bere Alto, proprietà del punto di riferimento del Rugby Fan Club, cioè Danilo De Zotti.
Per capire l’unicità del Rugby Fan Club di Vicenza, forse basterebbe approfondire la figura di De Zotti. Cinquantasei anni, diploma in un istituto professionale, con il rugby ha sempre avuto un rapporto spirituale e anche spiritoso. La sua biografia narra che De Zotti si avvicina al rugby a diciassette anni, gli dicono di presentarsi a giocare, perché a quei tempi il rugby è come una comunità in cui si accolgono tutti i casi umani (e, si sarebbe scoperto, anche alcuni casi zoologici), ma proprio lì sul più bello De Zotti ottiene un lavoro per occuparsi di impianti elettrici e allora comincia a girare il mondo, il suo mondo non diventa quello di Treviso e Padova e Rovigo, ma di Arabia Saudita e Venezuela e Kuwait, così per 10 anni perde di vista il rugby, finché a riavvicinarlo è il figlio, Cesare. Siccome anche a Vicenza dicono di dare a Cesare quel che è di Cesare, cioè un po’ di educazione, per aiutarlo in questo processo in cui non si è mai abbastanza preparati, Danilo ritrova il rugby. Il rugby come disciplina, come regole, scritte e non. Cesare gioca, si educa, adesso va all’università, filosofia, che come si sa, ha molto a che vedere con mischie ai cinque e salti del primo centro.

 

di Marco Pastonesi

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