Carlo Canna: “Fiamme Oro una scelta di vita. A Brunel, Bradley e Smith devo tanto, e quei calci sbagliati in Scozia…”

L’estroverso mediano d’apertura si racconta: “L’esordio al Sei Nazioni e la vittoria col Sudafrica i momenti più belli. Non posso piacere a tutti, ma sono fatto così”

Carlo Canna: "Fiamme Oro una scelta di vita. A Brunel, Bradley e Smith devo tanto, e quei calci sbagliati in Scozia..." (ph. Sebastiano Pessina)

Carlo Canna: “Fiamme Oro una scelta di vita. A Brunel, Bradley e Smith devo tanto, e quei calci sbagliati in Scozia…” (ph. Sebastiano Pessina)

Imprevedibile, sorprendente, a volte anche folle: Carlo Canna è stato questo ed altro. Apertura alle Zebre (118 presenze) e in Nazionale (53 caps), poi anche primo centro in azzurro, su intuizione di Franco Smith: “Una sfida che ho accettato con entusiasmo” ci racconta Carlo in una lunga intervista, dopo la scelta di ritornare alle Fiamme Oro dopo 7 anni alle Zebre. Una carriera fatta di alti e bassi, “ma senza rimpianti” dice Canna, che ricorda con piacere i vari momenti della sua carriera.

Leggi anche: Carlo Canna e le Zebre, una storia mai banale

Carlo, ti sei trovato di fronte ad un bivio: come sei arrivato alla scelta di tornare alle Fiamme Oro?

“Non è stata una scelta fatta di punto in bianco, ma pensata fin da quando ci è stata esposta questa situazione, dovuta a delle questioni fra le due parti. Nel corso dei mesi ci siamo trovati a dover prendere una decisione: c’è chi ha scelto di restare e chi di andare, io ho fatto la mia scelta”.

Che idea ti sei fatto della questione tra Zebre e Fiamme Oro?

“Penso ci siano state delle questioni delle quali non so molto, non saprei dirti quali sono state le dinamiche che hanno portato a questa situazione”.

È stata una scelta di vita?

“Ho fatto una scelta di vita già a 20 anni, quando sono entrato nelle Fiamme Oro. Poi ho avuto anche l’occasione di giocare in una franchigia, grazie alla Polizia che mi ha permesso di fare questo percorso. Mi sono tolto un po’ di soddisfazioni, anche se si poteva vincere molto di più”.

Cosa ti porti dietro (e dentro) dagli anni alle Zebre?

“La soddisfazione di aver calcato campi che prima vedevo solo in tv, e aver conosciuto delle persone che per me ora sono come fratelli: penso a Giulio Bisegni, Marcello Violi, Mattia Bellini. Non siamo stati solo compagni di squadra, ma amici anche fuori dal campo”.

Per Michael Bradley eri fondamentale, poi con l’arrivo dei nuovi allenatori hai trovato meno spazio. Cosa è cambiato?

“Mike negli anni ha voluto portare un’impronta molto chiara al gioco delle Zebre, e con quel gioco ci andavo a nozze. Si basava molto sul giocare palla in mano e sul sorprendere gli avversari, facendo delle giocate che non si aspettavano. A lui devo tanto: se sono stato convocato in Nazionale è stato anche grazie alla filosofia che ha portato alle Zebre. Nell’ultimo anno ho avuto delle difficoltà, ma ho sempre cercato di dare il massimo e alla fine nell’ultima parte di stagione ho giocato sempre. Resta il dispiacere avuto nell’ultima partita contro Connacht, ci siamo divertiti e avremmo potuto vincere e chiudere ancora meglio quest’avventura, ma purtroppo non è andata così. Sono contento però di tutto ciò che c’è stato alle Zebre”.

Non hai mai pensato di tentare un’esperienza all’estero? Hai avuto offerte in passato?

“Nei primi anni alle Zebre sì, ma non si è mai andati oltre un semplice interessamento. Ho voluto essere chiaro fin da subito: stavo bene a Parma, Bradley mi teneva fortemente in considerazione e volevo continuare il percorso che avevo iniziato con loro, non ho pensato ad altro”.

In Nazionale hai ottenuto oltre 50 caps: un rapporto a volte conflittuale ma sempre costante

“Per me giocare in Nazionale è stata la realizzazione di un sogno. Sono arrivato molto giovane, a 22 anni, e pian piano ho vissuto il ricambio generazionale, fino a diventare uno dei giocatori di maggiore esperienza. Posso dire di aver vissuto due epoche diverse. In alcuni periodi ho giocato titolare, in altri venivo impiegato meno, ma sicuramente l’essere stato sempre preso in considerazione mi onora. E poi ho giocato con Sergio Parisse, uno dei più forti degli ultimi 20 anni”.

Spesso però, soprattutto nella seconda parte dell’era O’Shea, giocavi davvero poco…

“Le mie prestazioni alle Zebre in quel periodo erano calate, e questo si è ripercosso anche sul mio contributo in azzurro e mi ha portato a lasciare il posto a Tommy (Allan, ndr), che in quegli anni col Benetton stava giocando molto bene. È giusto che in quel periodo fosse lui il titolare. Chiaro che a questi livelli uno vuole sempre giocare, ma non l’ho vissuta male, sapevo che Allan era ed è molto bravo”.

Sei passato attraverso quattro allenatori diversi in azzurro: Brunel, O’Shea, Smith e infine Crowley, che differenze ci sono tra loro?

Con Crowley ho lavorato poco, quindi posso esprimermi più che altro da “esterno”, ha riportato l’Italia a vincere al Sei Nazioni dopo anni e questo fa capire il suo valore. Per quanto riguarda gli altri: Brunel ha sempre creduto in me, mi ha portato al Mondiale anche se venivo dal campionato di Eccellenza. Con Conor O’Shea ho avuto il ciclo più lungo: lui è la vera figura di Director of Rugby moderno, ha portato una nuova mentalità al rugby italiano. A Franco Smith poi devo tanto: mi ha cambiato di ruolo e mi ha permesso di giocare di nuovo titolare, confrontandomi con giocatori di grande spessore in un ruolo non mio. Non è stato facile lavorare in quel periodo perché la pandemia ci ha messi in grande difficoltà sotto questo aspetto, anche perché Smith è un tipico allenatore di campo, molto di più di Conor. Per me giocare 12 è stata una sorpresa, ma ho accettato la sfida con grande entusiasmo: ho sfidato dei “colleghi” di ruolo come Farrell e Bundee Aki.

Si è sempre parlato di te come un giocatore estroverso, a volte poco prudente. Cosa ne pensi?

È un po’ il mio modo di essere, la mia forza e anche la mia debolezza. È una cosa che mi contraddistingue fin da ragazzino, mi piace attaccare la linea, creare spazi e sorprendere gli avversari. In campo poi gesticolo e parlo tanto, ad alcuni può dare fastidio, ma sono fatto così e continuerò a farlo anche alle Fiamme Oro (ride, ndr).

Hai qualche rimpianto?

Nessuno in particolare, sono felice della mia carriera, anche se ricordo la partita del Sei Nazioni in Scozia, nel 2017, quando nel primo tempo sbagliai 3 calci che di solito mettevo dentro senza problemi. Ero troppo nervoso, avrei dovuto essere più rilassato, e di conseguenza più concentrato, anche perché poi nelle partite successive sono tornato a piazzare senza problemi. Poi comunque ogni stadio ha il suo fascino e mette la sua pressione, Murrayfield è spettacolare quando gioca la Scozia. In generale sono contento di come sono andate le cose in questi anni, e spero che anche da fuori il mio modo di giocare sia stato apprezzato. Ringrazio tutto il rugby italiano per aver creduto in me. Ora il mio obiettivo è portare la mia esperienza alle Fiamme Oro e toglierci un bel po’ di soddisfazioni.

La partita che ti resterà sempre nel cuore?

Il mio esordio al Sei Nazioni contro la Francia, nel 2016. Sfiorammo la vittoria con quel drop di Sergio che non entrò per poco: sarebbe stato un esordio incredibile per me, che avevo segnato una meta oltre ai punti al piede. E poi c’è la partita contro il Sudafrica di quell’anno, anche se non erano gli Springboks di adesso.

Con gli acquisti di quest’anno, le Fiamme Oro possono puntare ai playoff?

Non mi piace parlare di obiettivi a priori. Un gruppo per essere ricordato deve raggiungere qualche traguardo: l’obiettivo è questo. Il livello è aumentato, anche grazie ai giocatori che sono scesi dalle franchigie, e ci sono tante squadre che possono lottare ai playoff.

Hai già pensato al post rugby? Ti piacerebbe restare nel mondo della palla ovale?

Vediamo… per ora sono concentrato sul rugby giocato. Finché mi diverto a giocare, continuerò a farlo. Ora penso a prendere casa a Roma, sistemarmi fuori dal campo e a questo campionato.

Francesco Palma

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