Nazionali e club: la difficoltà tutta italiana di andare a referto

Poche mete e pochi punti sono una costante del rugby azzurro. Sperando in un’inversione…

ph. Luca Sighinolfi

ph. Luca Sighinolfi

Uno dei problemi con cui il rugby italiano ha dovuto fare i conti in anni più o meno recenti nel momento in cui si confronta con le controparti di alto livello, sia internazionali che di club, è la difficoltà di riuscire a realizzare mete e punti.

 

Analizzando i risultati della scorsa stagione, comparando le due formazioni con meno punti fatti dei tre tornei professionistici del Vecchio Continente (che in tutti e tre i casi sono anche le ultime due arrivate della classifica finale), Benetton e Zebre sono le squadre con la media punti per partita più bassa. Nei 22 match di Pro 12 giocati, i Leoni hanno messo a segno 320 punti e i ducali 308, rispettivamente 14.5 e 14 a partita. In Francia meglio hanno fatto Oyonnax (429 in 26 partite, 16.5) e Agen (531 in 26 partite, 20), mentre in Inghilterra i London Irish hanno realizzato 14.9 punti a partita e Newcastle 16.2. Le differenze sono minime, ma sintomatiche del fatto che dalle nostre parti la difficoltà di andare a referto rappresenta un problema con cui fare i conti. Una tipologia di giocatore che manca tantissimo nel rugby italiano di alto livello è proprio quella dell’atleta in grado di dominare l’uno contro uno, di vincere la collisione andando oltre e permettendo al sostegno di attaccare lo spazio con l’offload. E non tanto nel gioco rotto, con difese sotto pressione o in inferiorità o in palese arretramento, quanto piuttosto nella ben più complicata situazione della linea schierata, quando è fondamentale “inventarsi” qualcosa per dare il là ad un’azione potenzialmente pericolosa.

 

Di giocatori di questo tipo purtroppo non riusciamo a formarne. Possiamo citare Michele Campagnaro, da una stagione ad Exeter, o Leonardo Sarto, che dopo quattro stagioni alle Zebre ha scelto la via della Scozia per indossare la maglia di Glasgow. Trequarti in grado di usare rispettivamente gli appoggi nello stretto o la potenza fisica per creare situazioni di difficile lettura nella difesa e, in definitiva, occasioni di meta. E non è un caso che questa sia stata la prima dichiarazione rilasciata pubblicamente da Mike Catt, allenatore dell’attacco azzurro: “Avere una buona fase di conquista in mischia e touche è il punto di partenza, per riuscire a marcare mete bisogna poi leggere la situazione e prendere decisioni in base a ciò che c’è davanti, e alleneremo questo aspetto così come lo mettevo in pratica da giocatore”. La lingua inglese utilizza un’efficace espressione per riassumere tutto ciò: spaces not faces. Un ruolo fondamentale quello di Catt, ma più importante ancora sarà insegnare tutto ciò in sede di formazione, federale o meno che sia.

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