Sport e Doping: la Responsabilità Sociale Personale, un’idea di Alberto Cei

Assegnare agli sportivi un valore in base anche al loro comportamento etico e sociale. Realtà o utopia?

ph. Andrew Couldridge/Action Images

In questo caldo agosto le vicende legate all’utilizzo di sostanze proibite da parte di atleti si sono rincorse. Dopo lo scandalo (ma davvero dobbiamo continuare a scandalizzarsi?) atletica di metà luglio, che ha coinvolto niente meno che Asafa Powell e Tayson Gay, è di pochi giorni fa la notizia che Alex Rodriguez, terza base degli Yankees e star della Major League di Baseball (e attualmente lo sportivo più pagato d’America, 275 milioni di dollari per dieci stagioni) , è stato squalificato per 211 partite per uso di diverse sostanze proibite, anche se il giocatore promette battaglie legali. Per quanto riguarda il rugby, di doping si sente parlare abbastanza poco. Ultimamente risalto mediatico hanno avuto nel mondo ovale francese le dichiarazioni di Bénezéch relative ai Mondiali 1995, mentre è di pochi giorni fa la notizia che nel corso dei recenti Mondiali Seven di Mosca su 133 verifiche, condotte dall’agenzia anti doping russa (RUSADA) neanche un caso è risultato positivo. Nel nostro immaginario, comunque, la pratica proibita rimane legata ad uno sport in particolare, il ciclismo, che non ha eguali per diffusione e profondità dei controlli.

 

Sulle pagine digitali dell’Huffington Post è apparso qualche settimana fa un pezzo dal titolo “Contro il doping c’è la responsabilità sociale personale: gli atleti facciano come le imprese”, a firma di Alberto Cei, psicologo dello sport. L’idea, come suggerisce il titolo,è la seguente: affiancare alla sanzione penale una sanzione di tipo sociale. Che interessi non solo l’atleta in quanto tale, ma l’atleta in quanto uomo. Insomma, uscire dall’aspetto della pura legalità per entrare in quello, ben più problematico e profondo, della cultura della legalità. Un po’ come quando si contrasta la criminalità organizzata, suggerisce Cei: non solo far rispettare la legalità, ma diffondere una cultura della legalità. E qui entriamo nell’altro paragone: far entrare nello sport il concetto di Responsabilità Sociale così come esso è applicato al mondo dell’impresa. Il valore di un’azienda non è dato solamente dal profitto e dal lavoro che genera, ma anche da una serie di altre variabile che ne definiscono il valore sociale: sostenibilità,impatto ambientale, garanzie sindacali… “Lo stesso dovrebbe valere per gli atleti, non possono più affermare di pensare solo a allenarsi e lasciare alle persone di cui si circondano ogni altra responsabilità, […] al pari delle aziende devono sviluppare una cultura individuale basata sulla Responsabilità Sociale Personale “. Il valore di uno sportivo, insomma, non dipenderebbe solamente dai risultati ottenuti (il profitto dell’azienda) ma anche da una serie di altri fattori per nulla secondari a quello del risultato. Tra questi ci sarebbe certamente l’uso di sostanze proibite.

 

L’idea, decisamente stuzzicante, presuppone una maturità che oltre allo sportivo deve competere a chi lo sportivo lo paga: troveremmo un presidente disposto a spendere di più per un giocatore il cui valore è maggiore perché ai meriti sportivi assomma anche quelli sociali? E troveremmo sponsor disposti ad investire su chi ha un basso valore sportivo ma un alto valore sociale, andando così oltre il diktat del risultato a tutti i costi? Non solo, servirebbe forse maggiore fermezza anche da parte di appassionati e addetti ai lavori. Perché poi si rischia il terribile impaccio di trasformare il carnefice (dopato) in vittima (del sistema).

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