Super Rugby, tre giornate per mostrarci già il futuro di Ovalia

Un torneo che è un laboratorio del rugby che verrà. Antonio Raimondi ci segnala i nuovi “trend” all’opera

ph. Nigel Marple/Action Images

A prima vista sembrava un’edizione normale di Super Rugby, per quanto un rugby giocato a cento l’ora possa essere considerato normale. Poi lo guardi bene, dopo tre giornate e scopri che ancora una volta il rugby di domani, sarà l’oggi del Super Rugby.
Non significa che questo rugby sia anche vincente della prossima Coppa del Mondo, ma mentre nell’emisfero nord si prova a giocare in modo più spettacolare, in Nuova Zelanda, più che in ogni altra parte del mondo, cercano di mettere insieme forza, velocità e intelligenza, traducendo ogni singolo elemento nel rettangolo di gioco.
Bella forza, si potrebbe dire, laggiù non hanno la pressione che c’è nel campionato francese o in quello inglese, per non dire dell’Heineken Cup. La parola chiave è innovazione, come avevamo già visto parlando degli All Blacks all’inseguimento del record di vittorie consecutive. Gli All Blacks, come massima espressione del movimento neozelandese, nel corso degli anni hanno trasformato la loro fama di giganti ruvidi, magari anche un po’ bifolchi, tutti forza e sudore, in fini pensatori rugbistici.

 

E’ una mutazione che è iniziata negli anni settanta, forse dall’episodio di The Angel Hotel di Cardiff che portò alla cacciata dal tour del pilone Keith Murdoch. Episodio che è entrato nella leggenda, così come la sparizione dello stesso Murdoch, durante il ritorno in Nuova Zelanda, tanto che è diventata anche una pièce teatrale. La prima illuminazione, in Nuova Zelanda, l’hanno avuta negli anni settanta, dal genio gallese Carwyn James, che guidò i British and Irish Lions alla vittoria nella serie con gli All Blacks. La trasformazione è stata stimolata dalla nascita della Coppa del mondo nel 1987 e successivamente dal passaggio al professionismo. Il modello del giocatore di rugby che grugnisce in campo, non poteva più essere sufficiente e il rugby di oggi è sempre di più una partita a scacchi in movimento.
Oggi gli All Blacks sono campioni del mondo, primi nel ranking mondiale, ma c’è un’area nella quale si evidenzia ancora di più la superiorità della Nuova Zelanda sul resto del mondo ovale. Pensate a quanti sono gli allenatori cresciuti con il modello “All Blacks” occupano alcuni dei più prestigiosi posti nel rugby mondiale, con grandi risultati.

 

A cavallo tra il 2011 e il 2012 i principali tornei, da emisfero sud a emisfero nord, sono stati vinti da squadre allenate da neozelandesi. Il nuovo modello è fatto d’innovazione, di un modo illuminato di interpretare il gioco, sviluppando qualità tecniche, che permettono di interpretare schemi e situazioni, a volte anche complessi.
Gli interpreti sono allenatori neozelandesi come Joe Schmidt (Leinster), Vern Cotter (Clermont Auvergne), Graham Henry (tutor di Kirwan ai Blues), Robbie Deans (Australia) Jamie Joseph (Highlanders), Steve Hansen (All Blacks, ma già in Galles), Mark Hammett (Hurricanes) e Warren Gatland (Galles e British and Irish Lions). L’elenco potrebbe continuare ancora, mentre meritano un discorso a parte, parlando di Super XV, Dave Rennie, Wayne Smith e Tom Coventry, campioni in carica con i Chiefs, che hanno mostrato lo scorso anno, ma anche all’inizio di questa stagione, le cose più interessanti e geniali.

 

A proposito, se potete guardare gli highlights di Chiefs -Cheetahs, la meta di Anscombe nasce da un movimento della linea arretrata davvero sublime che comprende tecnica individuale, organizzazione, angoli di corsa, corse finte e tempismo. Accuratezza di esecuzione che può essere raggiunta soltanto attraverso l’attenzione ai dettagli. Il Super Rugby maneggiato dai neozelandesi, diventa il posto migliore, per formare giocatori, anche se per vincere la finale dell’ultima Coppa del Mondo, gli All Blacks sono dovuti ricorrere a una “ugly win”, che ha lasciato anche qualche perplessità sulla loro capacità di reggere alla pressione di un evento come la Coppa del Mondo.
E’ un altro discorso, ma i dirigenti dell’emisfero sud, pensando a un rugby entertainment, creano l’ambiente migliore di crescita per i giocatori, che poi possono utilizzare e adattare le proprie qualità a differenti livelli ed esigenze. Oggi i super club neozelandesi giocano secondo il pensiero positivo iniziato da Graham Henry e con l’ottimismo di chi crede che i risultati vengano dal gioco.
E’ una questione di approccio positivo, che va nello spirito del gioco, dove la contesa deve essere leale. Forse un po’ utopistico, perché è facile scivolare, soprattutto nell’era professionale, nella vittoria a tutti i costi.

 

Questo modo positivo, porta ad avere approcci diversi, anche nelle ultime direttive arbitrali tra i due emisferi, come abbiamo potuto apprezzare nel confronto televisivo tra il Sei Nazioni e il Super XV (vabbè è un confronto improprio per i livelli, ma comunque indicativo). Gli esempi li abbiamo visti nelle prime giornate con i Blues di John Kirwan che sono andati in meta due volte contro gli Hurricanes, dopo sedici e diciotto fasi. Questo non vuol dire la rinuncia al gioco tattico al piede, nel match contro i Crusaders di venerdì scorso, infatti, i Blues hanno calciato in gioco per ventuno volte e neppure significa la rinuncia alla contesa nel breakdown, visto che gli stessi Blues sempre contro i Crusaders, hanno vinto cinque turn over nel breakdown, forzando anche cinque calci di punizione, per il tenuto del portatore di palla avversario.
A conferma dell’attitudine differente, ci sono anche i primi dati resi pubblici da Lyndon Bray, il responsabile degli arbitri per la Sanzar e le linee guida comunicate e condivise con allenatori e giocatori prima dell’inizio del torneo. Per gli arbitri ci sono tre aree prioritarie da salvaguardare: palla veloce nel breakdown, accuratezza nella mischia ordinata e spazio. Non entriamo nel dettaglio, delle indicazioni, anche perché ne abbiamo parlato già in altre occasioni.

 

I risultati comunicati da Bray rilevano che la percentuale di successo nelle mischie ordinate è salita dal 65% dello scorso anno all’ottanta per cento delle prime partite di quest’anno. Giù, più che nell’emisfero nord, il passaggio all’ingaggio in tre tempi, ha dato maggior stabilità. Ad esempio dei diciotto falli fischiati in Blues Crusaders uno è arrivato da mischia ordinata e gli altri tutti dal breakdown. Gli effetti positivi della mischia ordinata si sono riversati su altre aree, infatti, è diminuito il numero di calci di punizione ed è aumentato il tempo effettivo in cui il pallone è in contesa. In questa situazione, aumenta la richiesta di efficienza fisica per il giocatore, che si trova a giocare un rugby sempre più di corsa, che richiede sempre più capacità di interpretare le varie situazioni.
Restando ancora nell’area arbitrale, sembra positivo anche l’impatto della sperimentazione del TMO potenziato, condiviso anche da giocatori e allenatori. La sicurezza di decisioni più accurate e la possibilità di tornare su situazioni non chiare (fino a due fasi prima della marcatura o per identificazione e valutazione di gioco pericoloso) hanno un effetto di prevenzione sul gioco falloso.
E’ un sistema che funziona e non a caso, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica, occupano quasi costantemente i primi tre posti del ranking mondiale. E’ vero che non garantisce invece la vittoria nella Coppa del Mondo, ma i grandi sognatori, continuano a credere che la massima competizione mondiale possa essere vinta attraverso uno stile di gioco d’attacco, piuttosto che con la concretezza del “primo non prenderle”. Anche se poi, come il profeta del gioco positivo Graham Henry, bisogna essere pronti per vincere di un punto, otto a sette con una meta di un pilone, su una giocata da rimessa laterale.

 

di Antonio Raimondi

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