Quando una sconfitta fa male, molto male

Una cronaca molto particolare di San Giorgio-Iron Club

Non si sceglie quando diventare grandi. La vita è così: i progetti, i propositi, i sogni vengono ridimensionati dal tempo e dalla capacità  di manovra. No, non si sceglie quando diventare grandi. Nessuno di noi ha avuto la possibilità di farlo.

Piove a dirotto un po’ dappertutto, piove come se questo tempo volesse vendicarsi dell’estremo caldo degli ultimi mesi. Piove, e piove sul bagnato. 18 persone per una trasferta, la trasferta più lunga e dispendiosa del campionato, e la vaga sensazione che, nonostante tutto, anche in pochi si può andare a fare figura. Il freddo irrigidisce le giunture, si insinua nelle ossa e diventa colore dell’anima, fino a farti cadere in un torpore pieno di domande, mentre l’autostrada che di solito ti porta a casa adesso continua a scivolare oltre.

Il mare sotto di noi è mercurio su cui scivola il traghetto che ci porta dall’altro lato, l’ultimo tratto prima di diventare seri a rimuginare sul da farsi. Il Campo dello Spirito Santo è un catino, corto come nessun altro, inghiottito per tre lati dal cemento, affogato dall’acqua gelida per il resto. Drena poco il campo, troppo poco, ma – ci diciamo – almeno cadere non sarà un flagello come altrove.

Torna Capitan Cacahuete a guidarci: averlo a disposizione è  una sicurezza. Sul referto, poi, un altro vecchio nome nuovo: Manfredi IronManfro “el Trator” Salomone, a cercare di sollevare le sorti nostre, dopo una mezza annata infausta sui lidi catanesi.

Per il resto tanti riadattamenti che neanche al cinema. La partita comincia e il suo copione fa già intravedere quali saranno i temi della gara: mischia, tanta mischia, pallone-saponetta e poco lavoro per i trequarti, se non in fase difensiva. Il primo tempo va via come una guerra di trincea, a giocarsi il fazzoletto di terra tra i nostri 10 e i nostri 22 metri, con possessi alternati e poco efficaci, salvo qualche folata dei reggini o delle formiche in blu, per il resto poca roba e troppo poco tempo per vedere all’opera Raffaele “el Actor” Esposito come terza linea. Tuttavia, come in un’anteprima cinematografica, sembra che possa venire fuori un bel film. Il pettinatissimo Sietenegros  guida una trequarti un po’ troppo imballata, che soffre l’assenza del Rojo e dei centri titolari. Qualche folata del Deprimido all’estremo e poco altro in attacco chiudono un primo tempo da rugby d’antan, che fa vedere finalmente una buona solidità del pacchetto in mischia chiusa. 0 – 0 e mai era capitato di restare inchiodati su questo risultato.

Sull’avvio del secondo tempo pensiamo di poter sfruttare la superiorità numerica, e invece una pessima disciplina, condita da una pessima trasmissione, ci inchiodano dentro la nostra metà campo. Poi quello che non ti aspetti: calcio di punizione a 5 metri, mischia distratta e il pilone giallo-blu che entra come burro: 5-0 per la squadra di casa. Solo adesso lasciamo vedere che la nostra fragilità, più che sui fondamentali, è innanzitutto sulla testa. Sembriamo doverci slegare, abbandonare ai nostri demoni, smettere di lottare. In 10 minuti, poi, lasciamo che i nostri fantasmi ci rodano ancora. Due passaggi brutti consegnano ad un intercetto la palla del 10-0, grazie anche ad una difesa in riadattamento troppo balbettante. Cosa fare? Facce basse, occhio spento, la Oposicion in trequarti, per permettere a el Hablapoco di guidare la mischia. Qualcosa cambia, si riprende ritmo e terreno, dopo fasi interlocutorie e, negli ultimi venti minuti rischiamo di andare in meta per tre volte, con fiammate rabbiose e di cuore, come ad un sangue caldo si addice. Scorre troppo forte, però, questo sangue, pompa al cervello fin troppo nervosismo e, quando ai 10 metri attaccavamo violentemente, sfruttando la salita in fuorigioco degli avversari, il nostro temperamento ci fa girare una punizione già acquisita a causa di qualche parola di troppo.

Rabbia, frustrazione. Cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Eppure ancora sfruttiamo la caduta dei nostri avversari, avanziamo, lottiamo, non perdiamo il possesso, fino a quando all’ultimo minuto sfruttiamo finalmente la salita disordinata dei nostri avversari e el Actor schiaccia in meta il 10-5, che el Gigante, che si rivela calciatore di grande stile, piazza il 10-7 che chiude l’incontro.

Delusione non riassume tutti gli stati d’animo all’ingresso nello spogliatoio. Capitan Cacahuete trattiene con il fiato rotto la tristezza, non c’è voglia di parlare, su di noi si abbatte l’ennesima pioggia torrenziale della giornata, condita da grandine.

Portiamo a casa un altro punto, un’altra partita, in cui ci svegliamo troppo tardi e ci accorgiamo che siamo noi “i capitani delle nostre anime”, ma questa è la verità: crescere non è un’impresa facile e spesso, quando la vita ci chiede di diventare grandi, noi non siamo ancora pronti. Adesso c’è, sempre più vicino, il bivio: il burrone, lastricato di belle pietre tagliate, comodo, e dall’altro lato la risalita, con la sua strada polverosa e piena di pietre appuntite, verso il sole.

Nessuno ha scelto quando diventare grande, e questa è solo la nostra prima chiamata.

 

Nota a margine: ringraziamo il San Giorgio per il terzo tempo. No, aspetta: quale terzo tempo? Ah, già, non c’è stato il terzo tempo!

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