Zebre, Nuova Zelanda e Giappone: per Ovalia con Mils Muliaina

L’ex All Blacks racconta ad OnRugby la sua carriera e il Mondiale vinto nel 2011. E sul seven è sicuro: fondamentale per i giovani

ph. Bogdan Cristel/Action Images

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Mills Muliaina è arrivato a Parma la scorsa settimana per iniziare la nuova avventura con la maglia delle Zebre. Nel corso della conferenza stampa di presentazione, il giocatore ha parlato di cosa si aspetta dall’esperienza con la squadra bianconera, e in particolare del ruolo che avrà soprattutto per la crescita dei giocatori più giovani. Al termine, abbiamo invece parlato con l’ex All Blacks di tutta la sua carriera: dalle cento partite con la Nuova Zelanda all’esperienza in Giappone, passando per i Mondiali vinti nel 2011 con la Nuova Zelanda.

 

100 presenze con gli All Blacks, leader della Haka a Milano…Che emozioni si provano in quegli istanti?
Sono sensazioni pazzesche. Quel giorno in Milano è stata la squadra a chiedere che fossi io a guidarla, ed è stata una sensazione bellissima. E’ stato un grande privilegio, come sempre del resto quando vieni in Europa e capisci quanta passione c’è attorno alla nostra maglia e quanto gli All Blacks siano realmente grandi. Aver indossato la maglia per 100 volte è stato un autentico onore, ma ora guardo all’impegno con le Zebre e ad aiutare i molti giovani della squadraa. Comunque, quando vieni a giocare in Europa molti vogliono vederla, tanto che molte persone allo stadio magari non sono appassionate e vengono proprio per il richiamo suscitato da quel momento.

 

Il centesimo cap è arrivato durante il quarto di finale 2011 contro l’Argentina. A metà partita è uscito per infortunio e ha così chiuso la carriera internazionale.
E’ stata molto dura, avevo emozioni tra loro molto contrastanti. Era la centesima con gli All Blacks, ma dopo essere uscito quasi subito ho saputo anche che sarebbe stata l’ultima. E’ stata davvero dura. Poi a mitigare le cose c’è stata la vittoria finale: dopo i tentativi in Australia e Francia, dopo anni molto lunghi di preparazione, abbiamo raggiunto qualcosa di speciale e festeggiato per molto tempo.

 

Dopo aver perso le prime tre scelte ad apertura, vi è mai passato per la testa il pensiero che non ce l’avreste fatta?
Sinceramente no, ci abbiamo sempre creduto. Sono un grande amico di Stephen Donald, tra tutti noi vi è sempre stata fiducia reciproca e non abbiamo mai smesso di crederci. Le sconfitte in Francia e in Australia ci hanno in parte aiutato, facendoci imparare molto. Nel 2011 non abbiamo forse giocato il miglior rugby ma eravamo la miglior squadra.

 

Come mai la Nuova Zelanda non ha mai vinto lontano da casa?
Il vantaggio di giocare in casa è davvero grande e da non sottovalutare, e l’edizione inglese lo confermerà. Essere un All Blacks, poi, significa anche che tutti si aspettano che tu vinca ogni volta, il Mondiale c’è ogni quattro anni e la pressione è sempre molto alta. Nel rugby devi sempre gestire tanti aspetti, prendere decisioni che sportivamente parlando si rivelano “vita o morte”, e le devi prendere nel modo giusto. Ecco, alla World Cup devi entrare nell’ordine di idee che queste decisioni le prendi in un contesto in cui la pressione è decisamente maggiore. C’è stato molto lavoro dopo il 2011 da questo punto di vista, tantissimo allenamento sotto pressione.

 

E’ arrivato il momento di sfatare il tabù?
Ci sono molte squadre competitive. Sudafrica, Inghilterra, Australia, Francia, Galles, Irlanda… Tutto può dipendere tutto da una partita, e prima che te ne rendi conto sei già a casa.

 

Molti giocatori lasceranno la nazionale dopo il Mondiale. Come vede il ricambio?
Vero, e ad andare sono giocatori che molto hanno dato e fatto. C’è da dire anche che abbiamo tanto talento e tanti ragazzi che stanno emergendo. Ma il vero problema, ora, è un altro. Stiamo perdendo molti ragazzi che scelgono di giocare all’estero. E non parlo di All Blacks o giocatori con tanta esperienza nel Super Rugby, ma giovani ventenni che scelgono di emigrare. I soldi non sono certo molti come in Francia o in Giappone, e questo è chiaramente un problema da non sottovalutare.

 

Come si possono trattenere?
La passione e il richiamo di poter un giorno essere un All Blacks è fortissimo. Da quando hai tre anni e inizi a conoscere il rugby vuoi diventarlo. Poi certo, bisogna insistere nella formazione e nello sviluppo del gioco, e credo che da questo punto di vista siamo pronti. Siamo un piccolo paese ma amiamo il rugby.

 

Ha citato il Giappone. Come valuta la sua esperienza nella Top League, e crede che il rugby possa veramente avere un futuro ad alto livello?
Posso parlare per quella che è stata la mia esperienza. Certamente rispetto ad altre nazioni è un gioco in parte diverso, e c’è molto lavoro da fare per quanto riguarda l’intera organizzazione generale. C’è poi una situazione particolare per quanto riguarda le squadre, che sono di proprietà di grandi aziende che in definitiva possiedono i giocatori, e quando poi ci si relaziona con la Federazione non sempre è facile. Per quanto riguarda skills e velocità del gioco ci siamo, e personalmente spero che le cose vadano bene. In posti come  l’Asia e l’America il rugby può solo migliorare, e più si internazionalizza e meglio è. Ora stanno avendo problemi con la franchigia in Super Rugby, ma se la iscriveranno di sicuro il livello si alzerà.

 

Nel suo percorso c’è stato anche il rugby a sette. Quanto l’ha aiutata?
Penso sia un gioco importantissimo e soprattutto perfetto per i giovani. Aiuta molto per skills, condizione fisica e qualità dell’allenamento. Lo raccomando a tutti, del resto è facile e non ci sono troppe regole. Devo dire che mi ha migliorato e aiutato molto.

Di Roberto Avesani 

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