Storia di fango, di stelle rosse e di pazzi. Una normale storia di rugby

Marco Pastonesi ci racconta di una iniziativa di solidarietà e sostegno della Stella Rossa Milano: Mad Mud Star

Con la nebbia, il fango, la pioggia, il freddo, perfino la neve: non è roba da matti? Magari darne un po’, ma soprattutto – chissà perché, infatti i conti non tornano mai – prenderne tante: non è roba da matti? Correre avanti e passare indietro, guardare davanti ma anche un po’ indietro, oppure guardare davanti ma ascoltare indietro: non è roba da matti? Gettarsi fra le gambe di uno più o meno grosso che si precipita contro: non è roba da matti? Infilare la testa fra le chiappe di due energumeni, abbracciarsi e spingere, oppure farsi prendere, impugnare e sollevare: non è roba da matti? E per fare tutto questo, non essere costretti, ma volerlo, non essere pagati, ma pagare: sì, è proprio roba da matti. Matti per il rugby, forse perché il rugby non è normale, non è per normali, ma è matto, è per matti. A cominciare dal pallone, bislungo, dai pali, circensi, dagli spogliatoi, barbarici, a volte anche dalle docce, fredde, soprattutto da certi giocatori che si legano. Matti da legare. Eppure.

 

Si ritrovano due volte la settimana. Al Saini, fra l’Ortica e il Forlanini, a Milano, periferia est. Il campo è in penombra anche quando ha i riflettori accesi. Il terreno è pesante da ottobre ad aprile, poi secco come un pala ghiaccio. Però ci sono gli spogliatoi, l’acqua calda e i palloni. Il bello è il gruppo: giocatori, operatori sociali e pazienti. Giocatori e operatori sono della Stella Rossa, squadra di rugby milanese, settore Uisp, spirito e filosofia di sinistra, gente di cuore, i pazienti vengono da centri diurni, comunità, case private e appartamenti protetti. Hanno disturbi psichici e disagi mentali: stress, depressione, mancanza di fiducia e sicurezza, chi si sente schiacciato dalle responsabilità, chi escluso dalla società. L’idea è che il rugby, se è roba da matti, potrebbe essere il loro sport, la loro disciplina, il loro aiuto. Eppure.

 

Giri di campo: per riscaldarsi. Passaggi avanti e indietro: per ricordare. Partitella a campo ridotto: per divertirsi. Toccare con le due mani l’avversario che possiede il pallone: per placcare. Pronti, via, kick-off. Un’ora, in tutto. Maschi e femmine, casacche a strisce orizzontali e maglie prestate dal calcio, linee diritte e traiettorie paraboliche, gioco alla mano e qualche furbo calcetto, finché si scopre un corridoio, e allora il campo si trasforma in una prateria, la corsa diventa ebbrezza, la meta è gioia, felicità, allegria, per un attimo liberazione. Soste per spiegare. Intervallo per bere. Parole per incoraggiare. Mi è piaciuto Beppe Filotico, pilone della Stella Rossa, laureando in Filosofia, educatore in servizi con utenza psichiatrica e ideatore di questa squadra, quando si è dedicato a un giocatore, e lo ha rincuorato così: “Prendilo come un gioco. Perché è un gioco”. E mi è piaciuto Martino Napolitani, trequarti centro della Stella Rossa, laureato in Medicina e operatore in comunità psichiatrica, uno dei responsabili di questa squadra, quando alla fine ha chiesto a tutti di disporsi in un cerchio, e li ha congedati così: “Buon allenamento”. Eppure.

 

Si chiama Mad Mud Star. “Mad” come matta, “mud” come fango, e “star” come stella, quella rossa. “Mad” e “mud”, nel fango, nella nebbia, al freddo, però anche sul secco, al sole, al caldo, su quel campo del Saini, fra l’Ortica e il Forlanini, a Milano, periferia est, hanno la stessa pronuncia, lo stesso significato, la stessa anima. Quelli della Mad Mud Star corrono, passano, guardano, giocano, cadono, si rialzano, spingono, volano, magari sognano, però lottano. Insomma, si sostengono. Già, il sostegno. E’ tutto lì. Lì più che mai.

 

di Marco Pastonesi

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