Si ritira Tito Tebaldi: “Per me il rugby è stato tutto”

Intervista al mediano di mischia 36 volte Azzurro, che ha chiuso in queste settimane una carriera lunga 18 stagioni

Tito Tebaldi in maglia azzurra nel 2019 – ph. Ettore Griffoni

Dopo diciotto anni di carriera da professionista Tito Tebaldi ha appeso gli scarpini al chiodo: quella chiusa in semifinale di Serie A Elite con il Petrarca è stata la sua ultima stagione da giocatore.

Una carriera lunga, multiforme, con tante casacche diverse e con una voglia infinita di correre dietro alla palla ovale. Gli inizi a Noceto, poi il Gran Parma, quindi l’avvento della lega celtiche e l’inizio dell’avventura con gli Aironi, il passaggio alle Zebre. L’avventura all’estero con gli Ospreys prima e gli Harlequins poi, e infine il ritorno in patria: al Benetton e in nazionale. Infine un lungo percorso su un viale del tramonto che sembrava non finire mai, aggiungendo qualche trofeo alla bacheca del Petrarca.

“Per me il rugby è stato semplicemente tutto” dice, facendo eco al post sui suoi account social dove, in calce a una carrellata di foto con tutte le maglie indossate in questi anni, trova posto la scritta: 2007 – 2025, It’s been everything.

“Di solito non mi piace usare l’inglese per darmi un tono, ma in italiano non suonava molto bene – chiosa – Non uso neanche un granché i social, ma ho voluto fare quel post per essere io a dare l’annuncio prima che, nei prossimi giorni, esca una cosetta carina che ha realizzato il media manager del Petrarca. Ho preferito mettere un punto io per primo.”

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Tito, perché smettere adesso?

“Dei cinque anni che ho fatto qui al Petrarca, che fra parentesi è la squadra dove ho militato più a lungo, negli ultimi tre ho sempre avuto contratti di un anno. L’ho fatto soprattutto per volontà mia: volevo essere in pace con me stesso e rispettare la mia etica personale, vedere alla fine di ogni stagione come stavo e non trovarmi nella situazione di strappare un contratto lungo che poi magari non sarei stato in grado di rispettare. Però non c’è un motivo vero e proprio: ho reputato semplicemente che fosse il momento giusto per smettere. Non c’entra niente con la stagione che abbiamo fatto, che reputo buona malgrado non siano arrivati trofei. Solo che i tempi mi sembrano maturi e per me è importante smettere nei miei termini, non per un infortunio o per decisione di qualcun altro.”

Eppure tanta gente si è sorpresa a leggere il tuo messaggio d’addio, malgrado a settembre soffierai su 38 candeline. Forse è per via della passione incredibile per questo sport che traspare parlando con te, come abbiamo fatto un anno fa in occasione di una puntata del nostro podcast dedicata alla vittoria dello Scudetto 2024. Quindi mi sembra naturale chiederti: che cosa ha significato il rugby per te?

“Io per tutta la vita ho fatto questo: il rugby. Ha segnato tutto il mio percorso fin qui. Quella che ora è mia moglie ha lasciato famiglia, sport, lavoro e amici per seguirmi in una avventura all’estero, quella in Galles, che abbiamo affrontato assieme. Mia figlia è nata mente giocavo agli Harlequins. Non è stata solo una professione, ha segnato la mia vita quotidiana, per questo dico che è stato tutto.”

A proposito del Galles. Non sei l’unico giocatore italiano ad aver giocato all’estero, ovviamente, però sei l’unico ad essere passato in una squadra professionistica gallese, concorrente delle nostre franchigie, nello stesso campionato. Come accadde?

“Al secondo anno agli Aironi nello staff c’era Gruff Rees, un tecnico gallese che diventò l’allenatore dei trequarti degli Ospreys nella stagione successiva. Avevo evidentemente lasciato una bella impressione, penso soprattutto per la mentalità che avevo dimostrato con la franchigia. Lui lasciò il club a metà stagione perché riteneva che, da gallese, l’offerta degli Ospreys andasse colta. Mi propose di seguirlo e io fui ammaliato dall’ambizione e dalla possibilità di fare un’esperienza rugbistica in un paese con una cultura ovale più profonda di quella italiana, quindi presi questa via.”

Qual è stato il miglior Tito Tebaldi di questi 18 anni di carriera?

“Penso quello delle quattro stagioni in Benetton. Ero in quello che in gergo chiamano prime, credo: in quegli anni avevo ancora una freschezza fisica che non aveva nulla da invidiare agli anni del Tito giovane, ma soprattutto le esperienze agli Harlequins e agli Ospreys mi facevano sentire veramente preparato, molto pronto, quasi invincibile. E infatti anche in nazionale in quegli anni ho fatto le mie partite migliori: una gran gara in casa con l’Irlanda, una contro l’Inghilterra a Twickenham. E poi devo ammettere che a Treviso ho trovato in Kieran Crowley un allenatore con il quale, specie per i primi tre anni, mi trovavo davvero bene. La sua cultura sportiva neozelandese, il tipo di rugby che voleva giocare, la sua capacità di trasmettere ed insegnare: per me era un match perfetto.”

Ci sono stati altri tecnici che ti hanno segnato durante la carriera?

“Devo dire che mi sono già ritrovato a rispondere a questa domanda in passato, in tempi in cui non ero abbastanza maturo e ho dato risposte che adesso, se devo essere sincero, non ripeterei. Probabilmente erano giuste in quel momento, ma con il senno di poi non le ridarei. In ogni caso, ho sempre reputato gli allenatori di tre categorie: quelli bravi solo a far spogliatoio, che sono la maggior parte di quelli che ho trovato, specie in Italia e nelle categorie giovanili, come a Noceto, dove sono nato e cresciuto rugbisticamente; quelli bravi tecnicamente, ma a cui manca un po’ il lato umano, delle relazioni con le persone; e quelli che hanno entrambe le cose, e a me è capitato quasi solo con allenatori stranieri. Quindi diciamo che già così ho un po’ risposto.”

E in quanto a compagni di squadra?

“Ho sempre cercato di giocare in squadre dove avessi compagni con alle spalle una carriera importante e ho avuto la fortuna di riuscirci. Ho giocato con Lisandro Arbizu, che ha fatto quattro mondiali con l’Argentina. Ho rubato da Lisandro Villagra e Matteo Mazzantini nel mio ruolo: quando sono arrivato a Parma Matteo veniva dal mondiale del 2003, ad esempio, e in quella squadra c’erano anche Rima Wakarua e Aaron Kimura, due giocatori neozelandesi che erano a un altro livello rispetto al massimo campionato italiano. Quando sono andato agli Harlequins Nick Evans, che attualmente li allena, giocava ancora, ma fondamentalmente era un allenatore in campo.”

Qualcosa è già trasparso, ma riesci a selezionare una ristretta cerchia dei migliori ricordi della tua carriera?

“Non dimentico prima di tutto le giovanili con il Noceto. In particolare l’ultimo anno di under 19 dove riuscimmo ad arrivare ai playoff con una squadra che faceva fatica ad arrivare a mettere 22 giocatori in lista gara. Fu bellissimo e mi ricordo ancora tutti i nomi dei compagni di squadra di allora. Ci metterei i primi anni in prima squadra, ma soprattutto il primo tra i grandi, agli Aironi: il primo di un rugby che in Italia doveva essere finalmente davvero professionistico. Gli Ospreys sono un ricordo dolceamaro perché arrivai pieno di energia, con un’esuberanza incredibile e invece mi sono ritrovato in un momento storico difficile della franchigia, di fine ciclo a livello di rosa e di dirigenza, e io da italiano allora ero considerato l’ultimissima ruota del carro. In realtà il ricordo più bello della mia carriera sono gli Harlequins: seppure durato una stagione e mezzo, l’accoglienza che ho ricevuto è stata unica. Poi arrivavo nel club con la maglia più bella di tutte, ho ritrovato giocatori come Danny Care e Jordan Turner-Hall che avevo sfidato a livello giovanile, vivevo in una città bellissima e giocavo in uno stadio incredibile. Non ho davvero un solo ricordo negativo di quella parentesi.”

Quelli però sono anche stati gli anni in cui sei rimasto fuori dalla nazionale.

“Sì, ho avuto un po’ un buco in quel momento. Ho saltato la Rugby World Cup 2015 perdendo il posto perché fondamentalmente non giocavo agli Ospreys. Fu un grande rammarico, ma mi ha sempre fatto più male non essere stato convocato da Nick Mallett per il mondiale del 2011, perché per diverse gare consecutive ero stato titolare e poi, di punto in bianco, dal novembre del 2010 non venni più richiamato. Però sono molto felice di essere riuscito a chiudere il cerchio meritandomi la convocazione nel 2019, nei miei anni migliori di cui parlavamo prima.”

Gli anni, fra l’altro, in cui sei stato una prima scelta del Benetton nella prima qualificazione ai playoff di sempre, nell’allora Pro14.

“Sì, io arrivai a Treviso insieme a Kieran [Crowley]. Non credo di far torto a nessuno nel dire che negli anni immediatamente precedenti il Benetton non era stato all’altezza del campionato, e il primo anno di Kieran fu a suo modo bellissimo perché c’erano ancora le scorie delle stagioni passate, ma facemmo comunque diverse vittorie. Con lo stesso numero di successi, undici, l’anno dopo siamo andati ai playoff. In quella prima stagione a Treviso, fra l’altro, arrivò quella che reputo la vittoria più bella della mia vita: successo a Dublino contro il Leinster per 17 a 15, fermando la squadra faro della competizione e comunque una delle più forti d’Europa in assoluto.”

Ultima domanda: il tuo futuro sarà nel mondo del rugby?

“Non posso dare ancora un risposta definitiva. Non voglio darmi delle arie, ma diciamo che ho vari progetti in cantiere. Da una parte per me adesso non penso sarebbe opportuno continuare ad occuparmi al 100% di solo rugby, dall’altra ovviamente non è possibile tagliare i ponti. Già da due anni intanto sto allenando con Silvio Orlando il Villorba in Serie A, nel girone 2. È vicino a casa, è una società encomiabile come ce ne vorrebbero molte altre, un bel progetto. Del resto, anche un po’ per scaramanzia, preferisco non parlare per il momento. Però posso dire che mi piacerebbe sviluppare e approfondire un ruolo da consulente tecnico per le skills specifiche dei mediani di mischia, focalizzato sulla tecnica individuale del ruolo. È una cosa su cui ho già iniziato a lavorare e mi piacerebbe farla crescere.”

Lorenzo Calamai

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