Danni cerebrali: “Il rugby non può fare finta di niente”

Secondo Clive Woodward serve cambiare marcia, soprattutto nel controllo degli allenamenti, per garantire la sicurezza dei giocatori

I colpi alla testa e i possibili danni cerebrali sono un problema sempre più serio nel rugby di oggi. Ph. Sebastiano Pessina

I colpi alla testa e i possibili danni cerebrali sono un problema sempre più serio nel rugby. Ph. Sebastiano Pessina

Dopo aver vissuto una settimana complicata, con diversi ex-internazionali che si dicono pronti a citare in giudizio World Rugby per le negligenze nella cura della salute dei giocatori, il rugby si interroga su cosa si possa fare riguardo alla questione. Dalle colonne del Daily Mail ha detto la sua Clive Woodward, allenatore Campione del Mondo 2003 con l’Inghilterra, che ha sottolineato come secondo lui questo sia il momento per “prendere di petto” la questione e fare qualcosa. Ormai il rugby è uno sport estremamente fisico, e serve una posizione netta per far si che la massima sicurezza dei giocatori sia garantita a tutti i livelli, dice Woodward.

Leggi anche: Otto ex giocatori internazionali potrebbero citare World Rugby per i danni celebrali

L’ex allenatore inglese poi rilancia: “In tanti temono che questo momento di svolta cambierà irreversibilmente il gioco, ma possiamo considerarla una cosa negativa? Esiste un’alternativa? Io penso, prima di tutto, che la cosa più pericolosa sia quella di far finta di niente, mettere la testa sotto la sabbia e andare avanti come se non fosse successo niente”. Serve assolutamente evitare che il rugby sia percepito come un gioco troppo pericoloso, altrimenti per forza di cose la partecipazione giovanile diminuirà e gli sponsor graderanno altrove portando alla rovina il sistema.

Secondo Woodward sono già stati fatti enormi progressi negli ultimi anni riguardo la cura dei giocatori, e questo non può che essere sottolineato. Serve riconoscerlo, ma al contempo fare qualcosa in più: “Il problema principale non credo che sia il rugby in se, ma il modo in cui i giocatori sono preparati, cioè l’allenamento su base giornaliera, settimanale e mensile. Il prossimo passo dev’essere quello di creare dei protocolli per i training a tutti i livelli, sia per i club che per le nazionali”. Relativamente a questo, proprio sul Daily Mail era di recente intervenuto Lewis Moody (anche lui Campione del Mondo 2003), che aveva raccontato: “A Leicester ogni allenamento era come una sessione di contatto alla massima intensità.” Sull’argomento è intervenuto anche Sam Warburton, che dalle colonne del Times ha detto: “Ho sempre detto che, per l’intensità del rugby di oggi, nessuno dovrebbe giocare più di 25 partite all’anno. Inoltre, i contatti in allenamento dovrebbero avere la durata massima di 10 minuti”

Woodward replica che, al netto del dover prendere atto di come ormai la parte atletica sia diventata fondamentale nel rugby, serve farsi una domanda fondamentale: “Per quello che ogni giocatore fa in allenamento, quanti contatti sta ricevendo alla testa?”. Dovrebbe essere, secondo lui, il mantra “less is more” (di meno è di più) a guidare la preparazione al giorno d’oggi. A questo inevitabilmente si collega il problema legato alla durata, praticamente infinita, delle stagioni rugbystiche al giorno d’oggi tra club e nazionale: i carichi di lavoro cui vengono sottoposti i giocatori devono essere controllati, quantificati e allineati. Come farlo? Utilizzando la tecnologia a disposizione per consentire ai tecnici di concordare per quanto tempo ogni giocatore possa essere esposto al rischio, non solo in partita ma appunto anche in allenamento. Questo vale soprattutto per le sessioni di contatto e con le mischie, che devono prevedere anche una valutazione regolare che si concentri su schiena e collo.

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