Dall’ottimismo alla convinzione: Conor O’Shea un mese dopo il tour nelle Americhe

Il tecnico della Nazionale tra stato di salute del rugby italiano, abitudine a vincere e coperta corta. Aspettando gli All Blacks…

conor o'shea

ph. Sebastiano Pessina

“Alla fine del tour ero più convinto che mai che questo gruppo, con il ritorno di alcuni senatori e l’emergere di giovani promettenti, possa diventare la più forte Italia di sempre. Uguale o superiore alla forte Italia degli Anni Novanta contro cui ho giocato. Prima ero ottimista, ora so che possiamo esserlo“. Parole di Conor O’Shea, tecnico irlandese che assieme al suo staff ha preso il timone della nazionale italiana (e con essa di una buona parte dell’alto livello) e che ha bagnato la sua avventura con la doppia vittoria nel tour delle Americhe contro Stati Uniti e Canada, dopo la sconfitta all’esordio contro l’Argentina. A distanza di oltre un mese dal tour e a mente parzialmente più fredda, il coach irlandese ha concesso una lunga intervista al settimanale inglese The Rugby Paper. Si parla delle condizioni di salute del rugby italiano e della nazionale, di abitudine a vincere nelle franchigie e di singoli giocatori. Senza dimenticare il tour di novembre, vero primo banco da prova della sua gestione.

 

Come sta l’alto livello nella Penisola? “Non c’è bisogno di nessun catastrofismo sullo stato del rugby italiano – dice Conor O’Shea – In realtà è un periodo di entusiasmo […] Dobbiamo lavorare molto, certo, le cose non accadono dal giorno alla notte. Serve mettere a posto ogni cosa, andare tutti su di giri puntando verso la giusta direzione”. L’esempio, l’Inghilterra di Eddie Jones. E l’entusiasmo di cui sopra è dato anche da quanto percepito dallo staff durante le settimane giù e su per le Americhe: “C’è stato tantissimo impegno e senso di appartenenza di squadra, la fiamma era accesa. Io stesso venivo da una stagione luna e stancante agli Harlequins, ma lo spirito dei ragazzi mi ha rigenerato”. Dove bisogna lavorare? Fitness di alcuni giocatori (“altrimenti altri per compensare vanno fuori giri pure loro”) e allungamento della coperta (“soffriamo terribilmente ogni infortunio”). Quando poi si parla di cultura vincente, il discorso si sposta sull’abitudine a vincere che va ricercata nelle franchigie: “Treviso e Zebre devono iniziare a vincere, i giocatori italiani devono capire cosa serve e cosa si prova a vincere, con l’attenzione ai dettagli e non abituandosi a vittorie occasionali”.

 

Un accenno quindi ai singoli giocatori, a partire da Simone Favaro (“terrific modern day 7“), il cui lavoro sul breakdown è fondamentale data la presenza di una linea veloce che può rendersi pericolosa. Ci sono Gori (“che con buone piattaforme può proporre un gioco più offensivo”), Canna e Allan già di livello internazionale, Campagnaro “uno dei centri che più mi entusiasmano” e poi Leonardo Sarto “di cui l’Italia non ha ancora sfruttato al meglio le capacità offensive”. Una doverosa parola su Parisse, “uno dei tre o quattro truly great rugby talent incontrati nel corso della carriera”. Infine, Conor O’Shea guarda alla finestra di novembre che inizierà con la sfida dell’Olimpico contro gli All Blacks: “Non abbiamo nulla da perdere e dopo quegli 80 minuti sapremo dove siamo”.

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