Un breve tuffo in Nuova Zelanda, dove a scuola si impara il rugby e le skills vengono “scomposte”

Abbiamo fatto alcune domande a James Jowsey, allenatore della Canterbury Rugby Union che in gennaio fa tappa in Italia

ph. Sebastiano Pessina

James Jowsey è un ex giocatore neozelandese che tra il 1999 e il 2003 ha vestito in NPC (attuale ITM Cup) la maglia di Otago e Southland. Attualmente in Nuova Zelanda ricopre diversi incarichi: è fondatore e direttore del progetto X Factor Rugby, che offre alle società ovali servizi di consulenza e miglioramento che vanno dall’aspetto tecnico a quello organizzativo e strutturale, è contracted resource coach per la Canterbury Rugby Union e allenatore della squadra Under 19 del club Cantabrians. Da un paio di anni a questa parte in gennaio fa tappa in Italia dove tiene allenamenti e lezioni tecniche presso due società con cui è stata avviata una collaborazione. Proprio in occasione di uno di questi allenamento abbiamo avuto con lui una conversazione breve ma ricca di spunti.

 

Sei allenatore per la Canterbury Union Rugby, ed eserciti presso l’International High Preformance Unit. Di cosa si tratta e di cosa ti occupi nello specifico?
Alleno soprattutto i trequarti, in particolare il decision making e la situazione del contrattacco. L’International High Preformance Unit è una scuola rugbistica che ha lo scopo di preparare ed allenare ad alto livello giocatori, allenatori ed arbitri. I giocatori, che sono spesso giovani con buone prospettive rivolte quanto meno al semi-professionismo, entrano in contatto con noi privatamente o tramite le società, e si fermano da noi da un minimo di un mese a un massimo di cinque. Nel corso di questo tempo si allenano con noi ad alto livello, con i migliori tecnici e le migliori metodologie. La stessa cosa vale anche per gli allenatori. Nello staff della nostra scuola ci sono anche Todd Blackadder e Tabai Matson, per fare due nomi. 

 

E’ già il secondo anno che vieni in Italia. Cosa fai quando sei qui?
Due società [As Rugby Milano e Rugby Club Valpolicella, ndr] hanno iniziato una collaborazione con me. Quando sono qui tengo lezioni sul campo per i giocatori, ma soprattutto lezioni teoriche per gli allenatori. Quando dei piccoli club hanno queste occasioni, è bene sfruttarle al meglio allenando sì i giocatori, ma soprattutto chi poi andrà ad allenare. In questo modo si costruisce una squadra allenatori preparata e consapevole, che poi andrà ad insegnare al meglio ai ragazzi.

 

Certo che vieni da una realtà completamente diversa…
Da noi rugby è sinonimo di sport e di tradizione. Da molti anni lavoriamo ad altissimo livello, cosa che qui si è iniziato a fare da poco tempo. Ma la cosa più importante è non trascurare i più piccoli: bisogna fare di tutto per coinvolgerli per far conoscere loro il gioco. Prima inizi a giocare a rugby, prima impari e prima migliori e più possibilità hai di diventare un giocatore di alto livello. Certo, in termini di numeri le due realtà non possono essere paragonate. E poi da noi c’è un’istituzione fondamentale nel veicolare il gioco, ed è la scuola.

 

Ovvero?
Vedi, da noi i ragazzini dai 5 ai 12 anni giocano molto nel contesto scolastico, che quasi istituzionalizza la pratica del rugby. Da voi gli unici ad educare e a insegnare il rugby sono i club, che hanno di conseguenza una responsabilità enorme: la riuscita o meno dipende esclusivamente da loro, essendo l’unica parte coinvolta direttamente. Per questo devono lavorare al meglio e raffinare il più possibile l’offerta di rugby per tutte le età: se falliscono loro, non vi resta altro.

 

Nella scuola per cui lavori, qual è la cosa più importante che insegnate agli allenatori?
L’importante non è che un allenatore capisca il gioco, ma che lo comprenda a fondo. E ai giocatori bisogna trasmettere questa comprensione del gioco. Prima di pretendere che un giocatore faccia bene un esercizio, bisogna pretendere che capisca il perché di quel determinato esercizio, che va prima compreso e poi eseguito al meglio. C’è una bella differenza tra giocare a rugby e comprendere il rugby, e noi vogliamo che venga compreso.

E per quanto riguarda i giocatori, c’è un aspetto su cui insistete?
Ci impuntiamo molto sulle skills. Non puoi essere un giocatore di altissimo livello se non possiedi delle skills eccellenti. Sono la basi su cui costruire un giocatore, e senza quelle rischi che tutto il lavoro vada disperso. Tutti continuano ad allenarle, anche i più bravi. Carter non sa passare perché è bravo, sa passare perché allena tanto quel fondamentale. Gli staff sono sempre più profondi e non bisogna sottovalutare il lavoro di uno skills coach. E a proposito, fammi aggiungere che per come si è evoluto il rugby diventa ormai quasi imprescindibile avere uno staff diversificato, grazie al quale si possono allenare singolarmente le diverse parti. L’head coach, poi, le organizza e le mette assieme. Tornando alle skills, invece, più sali di livello e più le devi scomporre..

 

Scomporre le skills?
Un passaggio, un calcio, un placcaggio, non sono gesti semplici ma complessi, che possono essere scomposti in tante piccole parti. Mi puoi passare la palla come faresti normalmente, oppure farlo solo con una mano e allenarti sulla direzione di uscita dell’ovale, o solo con l’altra e concentrarti sulla fase di carico. Me la puoi passare frontalmente o sulla stessa linea, con lo sguardo libero di muoversi o costretto a guardare un punto fisso. Ecco cosa significa scomporre le skills in microskills. Se te alleni le microskills singolarmente, la skills completa verrà eseguita meglio, e il tutto sarà più della somma delle singole parti, se le hai allenate una per una.

 

Di Roberto Avesani @robyavesani

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