Il seconda linea marchigiano ha giocato assieme al pilone sia in club che in azzurro. Il suo ricordo raccolto da Marco Pastonesi
Otto ciak tra maglioni, capre e braccio di ferro: Altigieri nelle memorie di Camiscioni
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devono darvi un premio per questi articoli!
condivido, bellissimi.
Bellissimo! Come sempre, Marco!
bellissimi quadretti di un rugby che non c è più …
consiglio la lettura di Dallaglio’s rugby tales
legendary stories of blood,sweat and beers
Quoto! Non c’è più!
Certo che il filmato di Altigeri e Camiscioni che vanno in meta dai loro 22 facendo dentro e fuori tra di loro sarebbe da vedere…
Si può trovare online?
Grazie
camiscioni l’ho visto giocare anche nella parentesi con l’amatori milano di bollesan…allora era una super squadra solo sulla carta ma poco sul campo…arrivo’ anche fiasconaro
camiscio’
Un ricordo da Paoletti per chiudere in bellezza ?!
altro gran personaggio
perché chiudere?
datecene a iosa!
Quanto avemmo bisogno di certi giocatori così adesso 🙁
altri tempi in tutto
avevano piu’ carattere solo perche’ la vita di allora portava a doverti mettere in gioco piu’ che adesso….e nn avevi neanche tutti gli agi che ci sono nel rugby…era una vita piu’ dura ma che forse dava piu’ soddisfazioni dal punto di vista umano
Arzàn, io mi auguro che tempi come quelli non tornino mai più, sia in campo che fuori. Per fortuna ne siamo usciti, in campo e fuori. Un po’ come i reduci: nostalgia dei vent’anni e dei commilitoni, ma un’altra guerra proprio no.
Ho parlato di tempi rugby societa’ diversi
Nn ho parlato di nostalgia
Mi fa’ impressione la differenza di conoscenza che c’era del rugby….adesso qualcuno si lamenta ma allora quando si parlava di rugby fra amici quasi sempre rispondevano pensando fosse football americano
La tribuna piena del giurati ci faceva cosi’ tanto impdressione da sembrarci murryfield
Ogni epoca mal ha i suoi pregi e difetti difficilmente comparabili con un altra
Pensi davvero male
Ah se Camicio’ avesse saputo giocare per come racconta storie e soprattutto per come canta in piano bar
Altro che matfield sarebbe stato
Pastonesi contatta cucchiella è fatti raccontare le sue guerre con de Bernardo
In questa serie di articoli (+commenti) che vogliono ricordare prime linee del passato, De Bernardo e’ stato nominato… Presutti anche… mi permetto di scrivere in queste pagine anche i nomi di Galeazzo e Farina… e poi un giocatore che ho sempre ammirato, ma per motivi diversi dai precedenti: Vigolo.
E’ di un’altra generazione (successiva), ma io ho sempre molto ammirato anche Andrea Muraro, esempio per me di un certo modo di vivere il rugby.
Galeazzo si
Gli altri no: troppo perbene in campo
Perche’? quelli per bene in campo non li vuoi? 🙂
Penso. Mica sempre, ma ogni tanto mi capita.
http://venetoblog.corrieredelveneto.corriere.it/2015/06/08/i-formidabili-anni-settanta-del-rugby-campanile-politica-e-poco-fair-play/?refresh_ce-cp
Bravo mal! Di certo clima e di certe “abitudini” del passato non si sente per nulla nostalgia. Ricordo a me stesso cosa successe nel ’77 al povero Re Cecconi…
Bell’articolo che fotografa benissimo quegl’anni
Nn l’avevo mai letto
un articolo pessimo
mischia alla rinfusa dati e cronaca senza che tra gli stessi vi sia relazione
colloca i rubgbisti nell’area dell’eversione e mette alla berlina un Uomo che per quel fatto è stato assolto
restituiamo a quell’Uomo quanto gli si deve
Paolo Paoletti: dalle mischie (dis)ordinate alle vigne. Un’intervista un po’ vintage
Posted by matteomotta Date: 25 maggio, 2012in: Rugby
Paolo Paoletti, classe 1952. Cresciuto nel Frascati, in cui debuttò nel 1969, ivi militò fino al 1972; per un biennio militò nel CUS Genova, giungendo secondo al suo primo anno a un solo punto dal Petrarca campione d’Italia; nel 1974 si trasferì al Brescia dove vinse lo scudetto alla sua prima stagione. Esordì in Nazionale a Lisbona il 2 aprile 1972, in un incontro di Coppa FIRA contro il Portogallo, e l’anno successivo prese parte al tour in Africa meridionale del 1973, la prima grande spedizione azzurra extraeuropea[1]. Furono in totale 20 gli incontri internazionali di Paoletti, l’ultimo nel 1976 a Parma contro la Romania; tra gli altri tour cui prese parte figurano quelli del 1974 in Inghilterra, del 1975 in Scozia e del 1976 in Galles. Dopo il ritiro dalla carriera agonistica intraprese quella di arbitro dal 1982 al 1992. Paolo ci ha concesso questa magnifica intervista, dal fascino un po’ vintage, in cui racconta il suo rugby. Quello delle mischie (dis)ordinate e delle touche senza ascensori. Quello del professionismo clandestino e delle vigne da vangare. A voi, Paolo Paoletti. 1 Il rugby si è evoluto molto. Che differenze ci sono a livello di regolamento tra il rugby di oggi e quello che giocavi tu? Le regole fondamentali sono sempre le stesse, ci sono stati degli aggiustamenti per far giocare la mischia ordinata e la touche che in passato creavano problemi. In mischia ordinata ora l’arbitro scandisce quattro tempi in modo da poter gestire meglio la fase di gioco con una più accorta prevenzione; la touche, che era sempre problematica, si è risolta nel consentire ciò che ai miei tempi non era consentito, il sollevamento del saltatore. Ci sono molte ostruzioni in meno e una squadra può sfruttare le sue rimesse laterali quasi sempre. 2 Com’erano le regole della mischia ai tuoi tempi e che doti servivano a una prima linea? Erano una tragedia…pensa che quando iniziai a giocare, ma questo, per fortuna, solo nel periodo della giovanile, l’ingaggio della mischia ordinata non era regolamentato. Vale a dire che le prime linee partivano da una distanza di due metri e mezzo e creavano l’impatto. Il posizionamento delle teste delle prime linee avveniva nello scontro, tanto che i tallonatori alzavano il braccio dalla parte nella quale volevano che il mediano di mischia effettuasse l’introduzione a seconda di dove si era infilata la testa. Questo fino al 1969 poi venne stabilito che il pilone sinistro doveva avere la testa fuori e nella mischia formata tutte le altre teste dei partecipanti alla prima linea dovevano trovarsi alternate. Puoi capire quanti colpi, quante testate e quante scorrettezze sfuggivano ai direttori di gara. Le doti che venivano richieste ieri come oggi sono le stesse: agilità, abilità, forza fisica, resistenza, coraggio (forse più che attualmente), determinazione e soprattutto non ti dovevi lasciar intimorire, altrimenti era la fine. Tante mischie venivano fatte ripetere un’infinità di volte a causa dei crolli volontari per impedire l’avanzamento. 3 Come si allenava la mischia chiusa? Ci si allenava alla macchina della mischia. Macchine che nei primi tempi erano ostacoli fissi e quindi molto pericolose. Negli anni a seguire vennero un po’ perfezionate inserendo delle molle grandissime per simulare la resistenza. Ricordo che a Brescia nell’anno dello scudetto ci allenavamo con una macchina che pesava sette quintali e mezzo che fu costruita presso le carrozzerie Orlandi che produceva camion. Quattro volte la settimana, il lunedì era dedicato al recupero e il sabato si faceva allenamento leggero, simulavamo 150 introduzioni con relativa spinta generale. 4 Com’era la preparazione atletica ai tuoi tempi? La mia palestra, fino a 23 anni, fu il mio lavoro. Finito l’istituto Magistrale a 17 anni e mezzo, a casa mia si doveva lavorare nell’azienda agricola di famiglia dove coltivavamo le viti del buon Frascati e dove non arrivavano i macchinari bisognava girare la terra con la vanga (badile). Usai moltissimo questa attività per allenarmi, tanto da sviluppare una schiena, due spalle e due braccia che mettevano paura. Poi con il professionismo ho conosciuto le palestre, che avevo visto nel periodo della scuola, ma che non avevo mai frequentato. Quando ho cominciato a frequentarle il mio fisico si era già formato naturalmente e non artificialmente. Insomma, con la palestra lo mantenevo. 5 Quanto contavano il fisico e la tecnica ai tuoi tempi? Era importante allora tanto quanto lo è adesso. Che pensate voi giovani che noi eravamo da meno dei giocatori attuali? Personalmente mi sento attualissimo e decisamente più completo tecnicamente delle nuove leve. I vecchi sono ancora tutti ricchissimi di tecnica individuale, cosa che i ragazzi trascurano. 6 Secondo te il rugby moderno ha raggiunto il suo massimo livello o può diventare ancora più fisico? Penso siamo arrivati al massimo della fisicità. L’essere umano è una macchina. Questa macchina ha dei limiti. Se si va oltre si rompe! Sono curioso di vedere come saranno in salute gli attuali giocatori tra 35/40 anni. Io personalmente per quel poco che ho dato sono a pezzi, pieno di acciacchi e dolori. I problemi alla schiena li tengo sotto controllo abbastanza bene curandomi nei mesi estivi con cure adeguate, esposizione al sole, fangoterapia etc. Guai a saltare un’estate al mare o i fanghi. Il problema più grosso è la sordità. L’udito dall’orecchio sinistro lo persi che ero ancora giocatore; nel tempo sono diventato completamente sordo. Vivo con un sofisticato apparecchio acustico che mi fa capire 4 parole su dieci. La diagnosi che mi è stata fatta dall’Ospedale militare di Roma parla di “Sordità da traumi cranici”. Ti assicuro che i medici che mi visitarono non sapevano e non hanno mai saputo nulla della mia attività sportiva. 7 Come vivevi il rugby? Ho iniziato chiaramente per passione, poi per me è diventato un lavoro che mi portò fuori da lavori faticosi come quello della campagna. Non gli ho mai dedicato meno di 4 ore al giorno. Da ragazzo solo al mercoledì e al venerdì e mi dovevano cacciare dal campo. Con il professionismo sempre 4 ore, ma tutti i giorni della settimana. 8 Tu non hai giocato nell’era del professionismo, eppure il rugby era un lavoro. Ebbene si, io sono stato uno dei primi professionisti in Italia, ma tutto era nascosto; si stipulava il contratto tramite avvocato e le parti erano tenute a onorarlo ciascuno per le proprie competenze. Mi chiederai: e se non ti pagavano? Si impugnava il contratto, si andava in causa e veniva radiato sia il giocatore che la società. Quindi tacitamente c’erano soldi, e tanti, ma nessuno fiatava. 9 Credi che sia cambiato lo spirito del rugby nell’era del professionismo? Penso proprio di si. Anche se io sono stato uno dei primissimi professionisti, penso e ho sempre pensato che non possa esserci professionismo nel nostro sport. L’ideale sarebbe un semiprofessionismo: dovrebbero esserci sponsor che assicurino ai propri giocatori un futuro attraverso un impiego. Finché vai in campo il tuo lavoro è quello, quando non ce la fai più vai a timbrare il cartellino. Solo così hai la garanzia per un futuro. Se prendi soldi, non ti esprimi al massimo perché temi gli infortuni, quindi rendi molto meno. D’altra parte in questo meraviglioso sport esiste la legge che se ti fai male non ti conosce più nessuno. Queste considerazioni mi fanno affermare che lo spirito è decisamente cambiato, i giocatori si risparmiano! 10 Credi sia cambiato il Terzo Tempo e il modo di viverlo? Il terzo tempo c’è sempre stato e sempre ci sarà,ma è una cosa riservata ai giocatori,esclusivamente ai giocatori. Tutto quello che vedo fare dopo gli incontri internazionali è solo moda e business per chi organizza. 11 Quale rugby ti piace di più, quello di oggi o quello di 30 anni fa? Per la spettacolarità forse quello attuale, ma per l’agonismo quello che ho giocato io. 12 I ricordi più forti che hai legati al rugby? Tutto. E’ stato tutto bello. Ho passato momenti drammatici, ma anche quelli sono serviti a dare una svolta alla mia vita. Il ricordo più bello sicuramente è quello dello scudetto del 1974/75 conquistato con La Concordia Rugby Brescia, fortemente voluto da tutta la squadra. Il momento più brutto quando mi arrestarono e mi fecero fare 45 giorni di carcere per un incidente di gioco avvenuto nel 1976 in una partita di serie A a Reggio Calabria tra la locale squadra del Caronte e il Whurer Brescia. Durante una mischia chiusa un pilone reggino, quello di dx si procurò una ferita ad un orecchio e la storia dette la notizia come un morso. La cosa si risolse in un’assoluzione sia da parte della FIR sia da parte della Magistratura ordinaria, ma mi cadde il mondo addosso. Venni abbandonato da tutti, mi costò 24.000.000 di lire di allora e mio padre morì qualche mese dopo. Trovai conforto nella donna che ho sposato e dalla quale ho avuto due meravigliosi figli. Qui il rugby non mi aiutò molto, tanto da averne la nausea, decidendo di smettere definitivamente all’età di 28 anni dopo ben 11 campionati di serie A da titolare e 20 presenze nella Nazionale maggiore. 13 Quanto ti ha dato il rugby a livello umano/personale? Al rugby ho dato tanto e mi ha dato tanto. Ho dato la mia giovinezza e i sacrifici che l’impegno richiedeva. Mi ha dato valori, determinazione e amicizie vere. 14 Cosa ti manca di più del rugby giocato? Mi succede spesso di sognare di essere in uno spogliatoio, di prepararmi per la partita e di scoprire all’ultimo momento di non aver portato con me i parastinchi. Non avere i parastinchi era il mio incubo… 15 Un consiglio a chi vorrebbe giocare a rugby? Attenzione, crea dipendenza.
ovviamente l’articolo pessimo è quello suggerito dal sig. malpensante
Il dito e la luna.
Dito e luna, ma non si sa cosa è peggio:
“…L’udito dall’orecchio sinistro lo persi che ero ancora giocatore; nel tempo sono diventato completamente sordo. Vivo con un sofisticato apparecchio acustico che mi fa capire 4 parole su dieci. La diagnosi che mi è stata fatta dall’Ospedale militare di Roma parla di “Sordità da traumi cranici”. Ti assicuro che i medici che mi visitarono non sapevano e non hanno mai saputo nulla della mia attività sportiva.”
Grazie Marco Pastonesi
Valter Borghetto
Redazione nella foto morelli non c’e’
Insieme alla prima linea BONA PAOLETTI ALTIGIERI c’era anche BONA VITELLI ALTIGIERI…
E’ vero: altri tempi, altri giocatori, altri uomini.
Ma per favore, non ricordiamo Altigieri solo per le sue doti fisiche… (ed uso un eufemismo): era veramente un uomo solo muscoli e niente cuore e cervello? Non credo. Chi l’ha conosciuto bene, magari, ci potrà ricordare qualche “succoso” episodio che non abbia per protagonisti pugni, testate (e mi fermo qui!). I NON-RUGBISTI leggendo le testimonianze che la Redazione ha raccolto fino ad oggi cosa sono autorizzati a pensare? Ma che gente siamo?
Comunque, a vedere le foto, ho ancora i brividi!
Beh in realtà traspare anche perchè il rugby italico storicamente “non è buono” a giocare la palla. Perchè le mani si pensa meglio di usarle per altro.
Beh, vabbè…ho rivisto ieri le mete italiane di Irlanda – Italia, ed ho pensato: guarda come sapevano far girare la palla! E penso anche alla famosa meta del Treviso nella finale con il Rovigo, al Flaminio. E a quelle della “partita perfetta” di Grenoble… La palla non cadeva mai in avanti…
…Irlanda-Italia del 6/1/1997…
Si, percentuale di partite cosi in, ormai, 20 anni? Poi alla naionale aggiungiamo i campionati e le coppe… fino alla ciliegina dell’altro ieri in tv.
A occhio la nazionale sarà sul 5% di partite con handling passabile. Il resto perfino meno.
Sono personalmente coinvolto dagli articoli scritti dal sig.pastonesi,tengo a precisare che nessuno dei personaggi citati nei raconti del bravo giornalista pensa che uno o più di noi sia stato più bravo di coloro che alcuni lettori citano come esempio di grandi giocatori. Vorrei altresì far sapere a chi fosse interessato che alcuni dei nomi citati hanno giocato anche con il sottoscritto.I vari cucchiella de Bernardo,poverta,spagnoli,Tanfani,PRESUTTI,piovan,di Carlo ed altri erano tutti all’altezza di poter giocare in nazionale al nostro posto.Abbiate il buon gusto di aprezzare ciò che ha scritto il sig pastonesi.Tutto ciò è stato fatto per onorare un uomo di qualità aldila delle sue capacità di gicatore.Comunque voi la pensiate,io ho perso un fratello. Ieri al funerale ho lasciato una buona parte di me stesso.Grazie Marco Pastonesi.
grande capitano
grazie ancora ambi!
VCN racconta anche tu qualcosa delle sfide di quei tempi..
Vuoi sapere ad esempio della volta che una nota squadra veneta, dopo averle lasciate sulla panca ed essere andati a visionare il terreno vide le sue maglie da gioco stese ad asciugare sui fili della abitazione dello stadio Fattori
Ma era gennaio, mancava 1 ora alla partita ed eravamo sotto zero
Sai come giocarono?
Zuppi prima di entrare in campo….e c’era il sole
Toccante. Grande, @Ambi! Un abbraccio!
Non e poverta (che non so chi sia) ma PIVETTA
Ricordo un Bona-Robazza-Altgieri o sbaglio?
Si,una solo volta, Italia – Argetina 19-6 a Rovigo prima partita come allenatore Villepreux.
e che partita !!!!!!!!
i pumas erano tornati dal sud africa pareggiando o perdendo di poco o sbaglio ?