Come fa un Baby Blacks a diventare un All Blacks? Andre Bell risponde…

Abbiamo intervistato il tecnico kiwi. Che ci porta a spasso tra Nuova Zelanda, Galway e Fiji

all blacks under 20

ph. Sebastiano Pessina

Nel curriculum di Andre Bell, tecnico della International Rugby Academy of New Zealand (IRANZ), ci sono tantissimi paesi e incarichi. In carriera è stato head coach di Bay of Plenty e Wellington in Mitre10 Cup, allenatore in Giappone, coach dei trequarti sotto Pat Lam nel Connacht campione del Pro12 e infine assistente allenatore delle Fiji nel novembre internazionale da poco concluso. Nei giorni scorsi si trovava in Italia, per una settimana di stage organizzato dal Verona Rugby. Lo abbiamo incontrato per fare un giro attorno ad Ovalia.

 

 

Nuova Zelanda – Mitre 10 Cup – 2006/11

Mentre era head coach di Bay of Plenty e Wellington, come molti tecnici delle selezioni provinciali anche Andre Bell ha partecipato ai raduni dei Baby Blacks (Nuova Zelanda Under 20), in particolare a quelli di preparazione del World Rugby Under 20 Championship 2011 (allora chiamato IRB Junior World Championship), organizzato in Italia e vinto proprio dalla Nuova Zelanda. “Una delle cose positive dell’Under 20 è che partecipa a numerosi raduni nel corso della stagione. Durante questi training camp arrivano dal paese diversi allenatori specializzati in specifici settori del gioco, che allenano i ragazzi in modo attivo assieme allo staff della nazionale. Partecipano anche ex giocatori dell’Under 20 poi diventati All Blacks: in questo modo i ragazzi entrano proprio in contatto con il loro obiettivo, lo vedono e capiscono che anche loro possono diventare un All Blacks”.

Già, ma qual è la chiave per far sì che un buon atleta Under 20 diventi poi un giocatore internazionale? Quell’anno, nel 2011, nella finale contro l’Inghilterra erano in campo Luatua, Retallick, Perenara, Anscombe, Charles Piutau, Sam Cane, Barrett, Sopoaga e Naholo (di fronte Mako Vunipola, Launchbury, Kvesic, Ford, Wade, Farrell e Yarde). “La transizione dall’Under 20 alla Prima Squadra è un momento fondamentale. Non credo esista una chiave, esiste un metodo di fare le cose. Vogliamo che questi ragazzi sentano gli occhi addosso: li coinvolgiamo in Mitre10 Cup, li invitiamo ai training camp delle squadre allargate del Super Rugby, talvolta partecipano ai ritiri con gli All Blacks dove sono accolti con grande professionalità dai senatori…Permettiamo loro di imparare a conoscere l’ambiente, in modo che capiscano cosa serve per arrivare in alto. Non sono degli estranei, ma si sentono coinvolti in qualcosa di grande”.

E poi c’è la concorrenza, che ti costringe a migliorarti: “Nel 2011 l’Under 20 andava in campo con Sopoaga e Barrett, eppure era Anscombe l’apertura titolare. Così Barrett ha dovuto imparare a diventare un bravo estremo e questo è uno degli aspetti positivi della concorrenza: ti costringe ad imparare cose nuove”.

 

 

Connacht – Pro12 – 2014/16

La notizia dell’addio di Pat Lam da Galway al termine della stagione è freschissima, così come lo è il ricordo dello storico successo nel Pro12 2015/16 con Connacht. “Abbiamo fatto per il rugby ciò che il Leicester di Ranieri ha fatto nel calcio – scherza Bell – Nessuno ci avrebbe scommesso, eppure…E’ stato un momento di enorme valore per tutti noi: credo che abbia fatto bene in generale a tutto il movimento irlandese, come iniezione di fiducia nel lavoro fatto“.

Ma qual è stata la chiave del successo? “Credo che il lavoro fatto sulle skills sia stato determinante, soprattutto in rapporto allo stile neozelandese del nostro gioco”. Un caso che il miracolo sia arrivato nell’anno del Mondiale? “Diciamo che abbiamo costruito il momentum giusto ad inizio stagione. Però poi ci abbiamo creduto. Man mano che tornavano gli internazionali nelle squadre noi avevamo già costruito una solida fiducia nelle nostre capacità: andavamo in campo con un livello di fiducia incredibile. Sapevamo che non ci avrebbero battuto. Lo sentivamo”.

 

 

Fiji – Tour novembre 2016

Le squadre isolane escono da una Rugby World Cup molto complicata. E tra offerte dall’estero ed eleggibilità lampo, è difficile far fronte al peso politico ed economico delle Union Tier One. “Vero, far fronte ai contratti oversea è una questione sempre più complessa. Però non va dimenticato un aspetto fondamentale: per i giocatori isolani andare all’estero non è una questione solamente sportiva, significa anche aiutare in modo importante le proprie famiglie“. Per quanto riguarda invece la regola dei tre anni di eleggibilità, contro la quale Pichot e il nuovo Board mondiale promettono battaglia, “personalmente, mi piacerebbe cambiasse andando verso i 5 anni. Ma comunque poi si riuscirebbe a trovare un modo per prendere i giocatori ugualmente. Sarà una questione lunga da affrontare: il vero problema è quando vanno via ragazzi in età scolastica, di modo che nel momento in cui diventano eleggibili sono giocatori già formati”.

A livello internazionale poi, gli staff tecnici delle squadre Tier Two (soprattutto isolane) devono fare i conti con le difficoltà organizzative di assemblare la squadra, formata da giocatori che militano in giro per Ovalia: “Quando andiamo in tour abbiamo pochissimo tempo a disposizione per radunare la squadra e allenarci insieme: le squadre Tier One ne hanno molto di più. Non è un caso che l’ultima settimana di novembre abbiano vinto Fiji, Samoa e Tonga“.

Intano, qualcosa potrebbe cambiare con l’ingresso di una selezione figiana nel torneo provinciale australiano (a partire dal 2017) e forse anche nel Super Rugby: ” Già solo il fatto che se ne parli è un bene, anche se credo ci vorrà tempo prima che la cosa possa concretizzarsi. Intanto, un passo importante è l’accesso al National Rugby Championship australiano a partire dal 2017: una competizione importante e che dura parecchie settimane è una grande opportunità per i giocatori locali”.

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