Cravatte, poche parole (14) e l’amore per il Petrarca: ovvero Memo Geremia

Il libro di Giorgio Sbrocco racconta una delle anime del club padovano. Marco Pastonesi ne fa un ritratto

memo geremia

Geremia, che all’anagrafe era Guglielmo, che per tutti era Memo, che a chiamarlo Memo erano pochissimi, che per tutti gli altri era il “signor Geremia”. Che smise di studiare perché “fuori c’era così tanto da fare”. Che per anni andò fiero di una deformazione ossea alla clavicola destra causata non dalle mischie, ma dal lavoro di consegna di sacchi di legna e carbone. Che si avvicinò al rugby seguendo gli amici. Che il rugby a Padova era il Tre Pini, non uno di più e non uno di meno, poi però di meno, fino a scomparire. Che il collegio Antonianum, che la Compagnia di Gesù, che il Petrarca, che infine la Guizza.

 

Geremia, che una volta finì una partita con la spalla fratturata, e trattavasi di pilone. Che giocò una partita in Nazionale. Che la seconda volta in Nazionale si presentò in giacca e cravatta per dire che non poteva rispondere alla convocazione, perché a dirlo per posta o per telefono non gli sembrava corretto. Che poi in Nazionale non fu mai più convocato. Che smise di giocare a 27 anni e nessuno ha mai capito perché. Che divenne subito allenatore, del Petrarca e, una volta soltanto, anche della Nazionale.

 

Geremia, che telefonava alle sette del mattino ed esordiva con “stavi dormendo, vero?”, che aggiungeva “le luci che vedi fuori dalla finestra non sono marziani o dischi volanti”, che abbaiava “e dire che ha anche studiato tanto”, che ringhiava “con tutto quello che abbiamo speso per farti studiare”, che considerava solo medicina, legge, economia e ingegneria tant’è che a chi si iscriveva a scienze politiche ruggiva “è perché non hai voglia di lavorare”.

 

Geremia, che divideva il genere umano in tre categorie: chi capisce le cose prima che gli vengano spiegate; chi capisce le cose dopo che gli sono state spiegate; chi non capisce le cose neanche dopo che gli sono state spiegate.

 

Geremia, che di Vittorio Munari diceva “un biondino impertinente ma molto intelligente e pronto di parola che gira il mondo nella speranza di non dover mai fare fatica e di occuparsi di altro che non sia il rugby”, e a dirla tutta, ci ha visto giusto.

 

Geremia, che il rugby lo sintetizzava in 14 parole: “Basta arrivare con un uomo in più degli avversari dove c’è il pallone”.

 

Geremia, che i suoi “tosi” li metteva in banca, nel senso degli impiegati di banca, e li raccomandava così: “Il ‘toso’ è serio, non ha potuto studiare perché è entrato subito in Polizia (c’era anche una seconda versione: perché si è diplomato a costo di molti sacrifici). E’ rispettoso, educato, capace di assumersi responsabilità e tenere fede agli impegni presi. Se così non fosse, dottore, non giocherebbe con il Petrarca”.

 

Geremia, che quando si presentava per battere cassa, era imbattibile, e c’era ormai chi, appena lo vedeva con il cappello un po’ così, e la faccia un po’ così, e lo sguardo un po’ così, prima ancora di sentirsi chiedere, estraeva il libretto degli assegni e firmava.

 

“Nel segno di Memo”: Giorgio Sbrocco ne ha fatto un libro che è un ricordo e un omaggio (Cleup, 118 pagine, 12 euro). Geremia, che a Sbrocco avrebbe chiesto: “Ma al Petrarca hai dato qualcosa?”.

 

di Marco Pastonesi

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