Sonny Bill Williams, dalla strada al tetto del mondo. Cercando l’Olimpo

Due titoli iridati, uno sfiorato a 13. E ora il grande obiettivo dei Giochi di Rio 2016 con il Seven. Il ritratto di Marco Pastonesi

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Sarà la sua origine di frontiera, mezzo samoano e mezzo neozelandese. Sarà che è figlio di un tredicista, che agli antipodi non significa uno che ha vinto al Totocalcio, ma uno che ha giocato secondo la Rugby League. Sarà che si chiama come un bluesman, un armonicista che magari dal Mississippi è emigrato a Chicago, e che da acustico è diventato elettrico. Sarà che il rugby lo ha tolto dalla strada per metterlo su un campo, salvandogli o almeno inquadrandogli la vita. Sarà che ha giocato nei Counties Manuaku, la stessa squadra di Jonah Lomu. Sarà che fra un campionato e l’altro, dai rettangoli è passato ai quadrati, nel senso del pugilato, categoria pesi massimi, cinque match, cinque vittorie, imbattuto. Sarà che il giorno in cui avrebbe dovuto combattere per il titolo neozelandese dei massimi, l’avversario non si presentò perché gli erano stati contestati alcuni reati, tra cui produzione, detenzione e spaccio di stupefacenti, ricettazione, guida pericolosa, resistenza a pubblico ufficiale e declinazione di false generalità. E così lui, pensando alla patente che gli era stata sospesa per alcol, avrà pensato di essere – al confronto – quasi un chierichetto.

 

Sonny Bill Williams è il rugby. A sette, a tredici, a quindici. In Nuova Zelanda, Francia, Australia. Negli All Blacks. Dal 2010 a oggi, 33 partite (una miseria) e nove mete (mica male). Due volte campione del mondo, 2011 e 2015. La medaglia d’oro del 2015 regalata a quel bambino che aveva invaso il campo, a Twickenham, salvandolo dai bobbies: bel gesto, bellissima l’idea, soprattutto la naturalezza, la prontezza, la disponibilità, premiata con il riconoscimento del Panathlon internazionale per il fair play.
Lo scorso primo giugno la firma per altri tre anni con la federazione neozelandese. E adesso l’Olimpiade di Rio de Janeiro, a sette, in un girone eliminatorio infernale con Giappone, Kenya e Gran Bretagna.

 

Sette anni fa SBW si è convertito all’Islam. Il primo All Black musulmano, tanto per non smentirsi. Lui, che non ha Facebook né Instagram, su Twitter (594 mila “followers”) lancia messaggi di gratitudine per il più alto (“the most high”), saluta per sempre Muhammad Ali (“L’ho amato come atleta, ma era ancora più grande come umanitario”), posta filmati con i figli e foto con la nonna. A “Daily Mail” ha confidato che “mia moglie ha già detto che, se Dio vorrà, andrò alle Olimpiadi e vincerò una medaglia, ma questa deve andare diritto a mia figlia, non posso regalarla via”, che “mai, neanche nei miei sogni più coraggiosi, avrei pensato che quel ragazzo che era andato in Australia sarebbe stato qui ora”, che “è una tale benedizione stare con mia moglie e i miei figli. Ero un po’ un mascalzone. Facevo un sacco di cose brutte e sono finito fuori strada, ma Allah era con me”, che “il momento in cui sono più felice è quando dico le preghiere”, che “com’è possibile non dedicare 25 minuti al giorno per dire grazie? Guardo da dove vengo e mi sento benedetto”, che “se non c’è carne halal, posso mangiare pesce. E se non c’è pesce, posso prendere un frullato o qualcos’altro. Ci sono persone messe peggio di me”.

 

di Marco Pastonesi

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