Carlo Bruzzone, giornalista con 234 caps (di cui uno autentico)

Marco Pastonesi ricorda il collega genovese, dopo una vita a forti tinte ovali

ph. Sarah Williams/Action Images

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E’ uscito dal campo stanotte, alle 23.20. Era a casa, a Genova. Due mesi fa gli era stato diagnosticato un tumore al pancreas, un sicario che non fa sconti. Gli ultimi cinque giorni la situazione è precipitata e l’epilogo è stato fulminante, indolore, quasi sereno. Carlo Bruzzone non era il decano dei giornalisti italiani di rugby, ma il detentore del maggiore numero dei “caps”: aveva assistito a 234 partite – ma il numero potrebbe essere addirittura superiore – della Nazionale italiana. Una questione di legame, identità, appartenenza, da antica seconda linea, sfociata e ingigantita in affetto, amore, quasi dipendenza.

 

Il primo “cap” il 6 maggio 1951, quando aveva 17 anni, studiava all’Istituto tecnico e giocava seconda linea: fu incaricato dal “Corriere Mercantile” di scrivere 20 righe su Italia-Spagna. Gli altri 233, arricchiti da più o meno onorevoli sconfitte, conquistati in 65 anni di passione ovale e orale, vocale e scritta, e autocertificati con assoluta certezza. Carlo Bruzzone, per i suoi 234 “caps”, un anno fa aveva ricevuto un autentico “cap”, un berretto azzurro con visiera esattamente come quelli consegnati ai rugbisti che hanno disputato almeno una partita ufficiale nell’Italia. La cerimonia, al Circolo Rugby Parma, con un XV di giornalisti rugbisti italiani compagni di avventure e sventure, di aerei e tribune, di treni e spogliatoi, di sale-stampa e sale-aspetto, di chiacchiere e racconti, di ricordi e precisazioni, di nomi e cognomi, di tramezzini e birre, di tarallucci e vino, di piloni e terze, di aperture ed estremi, anche aperture al mondo, anche estremi istanti.

 

“Bruzz” ne ha viste di tutti i colori, soprattutto a strisce orizzontali. Ha viaggiato per continenti ed emisferi, raccogliendo presenze nei test-match e nei tornei. Ha annusato stadi e spogliatoi, sopravvivendo allo 0-0 contro il Portogallo a Padova e al 13-12 contro la Jugoslavia ad Aosta, tutt’e due nel 1972, nel giro di cinque mesi. E una volta – contro la Spagna a Madrid, sempre nel 1972, anno, ma solo per lui, di grazia – si è anche prodigato come giudice di linea. Ha assistito, a sue spese, a sei Coppe del mondo su sette, non riuscendo mai a superare – ma non era colpa dei suoi articoli – il girone eliminatorio. Ha incassato verdetti marziali e ardue sentenze piangendo per due catastrofi contro il Sud Africa, 101-0 a Durban e 101-3 a Huddersfield, entrambe accadute in un altro anno non felicissimo, il 1999.

 

Esuberante, disinibito, spudorato, “Bruzz” era il tipo di giornalista capace di insultare un arbitro che aveva negato all’Italia una meta contro gli All Blacks (non decisiva: risultato finale 76-14 per i neozelandesi), di abbracciare tutti i colleghi in tribuna-stampa dopo la vittoria dell’Italia sulla Francia 22-21 a Roma nel 2011, di rischiare l’infarto per il mancato pareggio con un calcio di Luciano Orquera all’ultimo secondo contro l’Australia a Firenze nel 2012, e anche di contestare il c.t. inglese Sir Clive Woodward, quando accusava gli azzurri di “gioco sporco”.

 

Ottantadue anni scoppiettanti, esplosivi, vulcanici, sostenuti da una voce che non aveva bisogno di un megafono o di un microfono per farsi sentire e riconoscere anche all’Olimpico, genovese (e genoano: presidiava gli spalti di Wembley quando il Grifone s’impossessò del Trofeo anglo-italiano con tre gol di Gennaro Ruotolo), “Bruzz” scriveva di sport, e non solo di rugby, dal cricket alla pallavolo, ma la sua anima era ovale. Giocatore, arbitro, dirigente, giornalista anche per La Gazzetta dello Sport: ha respirato il rugby in tutte le sue forme e i suoi luoghi, in tutti i suoi modi e in tutti i suoi mondi. Con candore. Senza invidia.

 

“Bruzz” è passato dalle strategie di Julien Saby a quelle di Jacques Brunel, dalla stazza di “Maci” a quella di “Castro”, dalle legnate di Marco Bollesan alle magie di Sergio Parisse, e ha attraversato i calci di Diego Dominguez, ma anche quelli di Kelly Haimona, i drop di Rocco Caligiuri, i testa a testa di Ambrogio Bona, le touche di Doro Quaglio, gli sfondamenti di Franchino Berni, le finte di Ivan Francescato. Aveva la pellaccia dura ma il cuore dolce degli autentici rugbisti: sapeva piangere. Duecentotrentaquattro “caps”, più di quelli collezionati insieme da Marco Bortolami e Andrea Lo Cicero. Belìn, “Bruzz”, sei stato grande.

Marco Pastonesi

 

A Pucci, la moglie di “Bruzz”, un abbraccio.
Il funerale è previsto sabato alle 11.45 nella chiesa di Nostra Signora del Carmine, a Genova

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