Dalla scuola senza sport all’alto livello sempre più esigente: il lavoro delle Accademie

Abbiamo intervistato Matteo Mazzantini, ex numero 9 azzurro e Responsabile Tecnico della Zonale di Torino

ph. Jason O'Brien/Action Images

ph. Jason O’Brien/Action Images

Classe 1976, 9 caps in Azzurro tra il 2000 e il 2003 e una carriera di club in giro per la Penisola, Matteo Mazzantini è da due anni Responsabile Tecnico dell’Accademia Zonale di Torino. Otto degli atleti ospitati questa stagione nella struttura piemontese si trovano in questi giorni in Galles con la Nazionale Under 17, dove stanno partecipando con successo al Conwy International Rugby Festival (a questo LINK gli highlights della doppia vittoria contro la Francia, il prossimo impegno proprio quest’oggi contro i padroni di casa). Delle buone prestazioni delle nostre nazionali fino all’Under 18, del difficile gap che attende poi i nostri atleti al momento del salto nell’alto livello e in generale del sistema di formazione delle Accademie abbiamo parlato assieme allo stesso Mazzantini.

 

Per molti le Accademie sono il problema più grande del nostro movimento. Cosa ne pensi?
Dispiace che a priori si mettano in croce le Accademie, perché è uno dei progetti più importanti messo in piedi per la crescita dei ragazzi. È un progetto ambizioso e condannarlo dopo pochi anni è antipatico. Tante posizioni su questo argomento sono forse strumentali.

 

Dopo la vittoria delle due squadre della Nazionale U17 hai scritto su Facebook che il lavoro paga. Come valuti fin qui la tua esperienza in Accademia?
Paga il lavoro fatto in tutte le Accademie. Certo il progetto è migliorabile e soprattutto va geograficamente adattato, perché è impossibile paragonare il Veneto alla Liguria o alla Sicilia: ogni regione ha le sue caratteristiche, ha società che possono fare da riferimento ma anche no, perché in certi posti mancano club forti. E’ soprattutto in questi casi che la federazione deve sostituirsi alla formazione, cercando di ottenere il meglio da un gruppo ragazzi selezionato.

 

Come funzionano le strutture Zonali rispetto alla Nazionale (Francescato)?
La grossa differenza è che nelle zonali i ragazzi arrivano la domenica sera e ripartono il venerdì per giocare con il club. Il campionato delle Accademie Zonali consiste in alcune partite giocate a ottobre, novembre, dicembre e gennaio una volta al mese. I nostri ragazzi durante la settimana vanno a scuola nella città sede della Accademie, gli allenamenti si tengono ogni pomeriggio e a volte anche la mattina prima di andare a scuola, ma dipende sempre dagli impegni scolastici e sportivi.

 

Come sono organizzati gli allenamenti e in generale il vostro lavoro?
Cerchiamo di fare un lavoro globale, che non trascura l’insegnamento di una mentalità e una cultura dell’allenamento a 360°, quindi anche l’alimentazione, ma non solo. Facciamo diversi incontri con i ragazzi perché capiscano che se vuoi arrivare in alto non serve solo talento ma anche costanza e dedizione. Poi in generale il lavoro è un terzo tecnico, un terzo tattico e un terzo fisico (struttura muscolare, abilità nella corsa e potenza). Talvolta colpisce che i ragazzi tornano al club dove non hanno grandi prestazioni, ma vanno messi sotto pressione per avere risultati importanti in futuro. E’ dannoso continuare a pretendere di avere risultati nell’immediato.

 

Quando si pensa all’estero spesso si cita un altro grande problema del nostro paese: la mancanza di cultura sportiva e il ruolo delle scuole…
Da questo punto di vista la scuola italiana è un disastro. A livello motorio e di formazione non prepara a vivere una vita equilibrata: mandiamo i ragazzi a scuola dove dalle 8 alle 14 stanno seduti, poi li portiamo mezzora in palestra a farli fare su e giù con le braccia. Noi abbiamo rapporti con college e scuole estere e non c’è paragone: ci sono strutture, palestre, piscine, i ragazzi studiano anche più volentieri se si associa la scuola all’attività fisica. Sin da piccoli crescono più coordinati, anche perché imparano i gesti di altri sport. Posso dire che è un problema che la Federazione cerca di risolvere, ma non può farlo da sola.

 

Poi le lacune si manifestano. Soprattutto in uno sport atleticamente completo come il rugby
Ci sono abilità motorie facilmente acquisibili fino a una certa età, come calciare, correre, rotolare, prendere una palla al volo. Se il ragazzo fa da subito più esperienze motorie, è più probabile che poi quando decide uno sport in particolare, abbia un bagaglio motorio più ampio e sia in grado di associare i vari gesti tecnici appresi. I ragazzi che arrivano al rugby dal calcio sono generalmente velocissimi, rapidissimi, perché sviluppano gli appoggi e hanno doti di corsa eccezionali, ma faticano a tenere la palla in mano. Chi viene dal basket invece ha il problema opposto. Il rugby ha bisogno di molti schemi motori, se si gioca solo a questo sport dall’inizio alla fine è difficile avere, che so, la fantasia creativa dei neozelandesi.

 

E’ anche per questo che fatichiamo ad avere trequarti in grado di fare la differenza?
Noi partiamo da livello più basso, ma se in generale i giocatori non osano è un problema più complesso, che dipende da allenatore, gruppo, preparazione atletica… E’ vero però che sui trequarti abbiamo fatto fatica a costruire giocatori di qualità, che siano veloci e in grado di gestire la palla e il rapporto spazio/tempo con il corretto timing e linee di corsa di volta in volta efficaci. Ma queste sono abilità che vengono giocando tanto e avendo tanta esperienza. A noi serve più pazienza con i ragazzi che arrivano nelle prime squadre, perché è difficile paragonare un ventenne italiano e uno inglese. Quello che posso dire e che vedo in prima persona è che con il Progetto Accademie cominciano a venir fuori ragazzi con qualità buone, anno dopo anno sempre migliori. Perché c’è un bel lavoro fatto a partire dalla propaganda e poi nelle Under 14 e 16. Non è un caso de negli ultimi anni l’Under 18 ha battuto Galles, Francia e Irlanda.

 

Il vero problema quindi viene dopo, nel momento del salto nell’alto livello…
La Federazione sta lavorando per colmare il gap, che è grosso. Dal basso arrivano generazioni di giocatori bravi, ogni anno si vedono ragazzi migliori sotto l’aspetto tecnico, tattico, fisico… ma la differenza c’è e rimane, dobbiamo essere bravi a non bruciare i più giovani soprattutto quando arrivano molto in alto. Abbiamo preso 67 punti in Galles, ma leggere molte critiche dà fastidio, perché i ragazzi si sono battuti e hanno dimostrato il vero spirito del rugby. Certo che esordire a Cardiff è dura, ma se critichiamo una prestazione del genere ci facciamo solo del male.

 

Da tecnico federale come consideri i giovani che scelgono di provare la strada all’estero?
Noi prepariamo i ragazzi per giocare al più alto livello possibile, poi sta a tutto l’ambiente essere attrattivo nei confronti di questi ragazzi. All’estero il nostro rugby non è attrattivo né per i ragazzi né per i giocatori né per gli spettatori. Personalmente non vedo niente di male nel prendere e andare all’estero. Il vero problema è che i nostri club non sono strutturati per accogliere professionisti, a parte Benetton e Zebre che faticano pure loro. Il nostro movimento è ancora dilettantistico, se un giocatore vuole fare il professionista deve rivolgersi all’estero. E non c’è da scandalizzarsi. Se vogliamo tenerci i giovani dobbiamo trovare, tutti insieme, la via per dare la possibilità a questi ragazzi di investire tempo nel rugby. Per farlo bisogna dare certezze al progetto di vita umano dei ragazzi.

 

Ricette se ne sentono sempre tante…
In Italia siamo in 60 milioni e ognuno ha la sua idea. Bisogna mettersi seduti e trovare punti di incontro senza farsi la guerra, ma uno dei problemi più grossi è che ognuno si crede il migliore. Capita anche a me personalmente, ma è un errore. Bisogna essere aperti e sto facendo una crociata sotto questo aspetto. Siamo un popolo con grandi risorse e non riusciamo mai a farle emergere se non se messi con le spalle al muro, quando tiriamo fuori qualcosa in più.

 

Permettere all’Accademia Nazionale di giocare in Eccellenza risolverebbe in parte i problemi?
La Francescato dovrebbe fare l’Eccellenza perché darebbe la possibilità ai ragazzi di essere messi in maggiore difficoltà. Ma questo non farebbe diventare il campionato più attrattivo. Per questo serve un gruppo di società strutturato. Abbiamo sofferto la crisi, ma il campionato italiano non è poi tanto peggiore di qualche anno fa, ci sono ancora belle partite. Più che una questione di gioco è una questione di organizzazione societaria, che al momento latita. Poi c’è un altro aspetto da considerare, che è quello della motivazione dei ragazzi.

 

Ovvero?
Giovani bravi ce ne sono tanti, qui in Piemonte vedo ragazzi che fanno la Serie B ma potrebbero potenzialmente aspirare ad un livello ben superiore, ma non sono motivati, non vengono adeguatamente seguiti perché magari la società fatica a trovare un’organizzazione o comunque una strutturazione che li valorizzi. Quindi alcuni di questi giovani scelgono altre strade, ma quando perdi due o tre anni poi recuperare è impossibile.

 

Esiste un problema di abbandono per chi al termine dell’Accademia non trova uno sbocco verso l’alto?
E’ un tema su cui ci confrontiamo spesso. Finiti i due anni in Accademia Zonale si creano aspettative che a volte non vengono ripagate e qualcuno smette. Del resto se per due anni ti alleni quattro ore al giorno devi avere una grande motivazione, se viene meno inizi una nuova vita. E’ umano.

 

Quali strumenti avete per evitare che ciò accada?
Noi facciamo del nostro meglio, portando e trasmettendo la nostra esperienza ai ragazzi. Combattiamo quotidianamente il creare false illusioni e aspettative, cercando di far capire i limiti e le dinamiche dello sport. Da questo anno poi la FIR ha a disposizione un budget per un eventuale supporto psicologico, ma in genere il gruppo è molto affiatato, stiamo vicini ai ragazzi e in contatto con le famiglie. Noi seguiamo i ragazzi tra i 15 e i 17 anni e se chiedi ai genitori, la stragrande maggioranza è contenta dell’esperienza che i figli fanno.

 

Ultima domanda secca. L’importanza del rugby Seven, di cui sei un grande sostenitore
Sono sport che vengono dalla palla ovale però sono diversi nell’applicazione degli stessi principi. Sono cresciuto con l’idea, retaggio di famiglia, che il Seven non servisse, ma poi mi sono convinto che è propedeutico soprattutto per i trequarti del 15. Ogni riunione abbiamo discussioni su questo argomento. Giocare a sette per esempio d’estate è utile ai ragazzi per crescere da diversi punti di vista: a livello fisico si lavora molto, stimola a crescere sotto l’aspetto tecnico e tattico, a ragionare sulle situazioni che si creano. E’ più facile comprendere certi meccanismi quando si affrontano da prospettive diverse, la diversità arricchisce sempre. Da questo anno ci puntiamo di più, mi sento spesso con coach Andy Vilk perché sono convinto stia facendo un buon lavoro e che sia un lavoro importante.

 

Quale valore aggiunto può dare a livello mentale?
Una partita a 15 la prepari in una settimana, ti prepari a fare una battaglia che comincia e finisce nell’arco di 80 minuti. Il Seven è diverso, prepari un torneo dove fai anche otto partite, ma mentalmente non le prepari come fosse un’unica partita a 15 altrimenti ti scarichi subito. Nell’arco di un torneo vivi momenti brutti e belli, poi fai una pausa e recuperi. Ma nel giro di tutta una giornata vivi tutte le emozioni di una partita a 15: la battaglia, l’attitudine, stringere i denti nella fatica, ritrovarsi dopo un momento negativo, gioire per quelli positivi… Per chiudere c’è una cosa che mi piacerebbe  evidenziare.

 

Prego
Sono italiano, sono orgoglioso di esserlo ed il mio sogno è di vedere la nostra nazione ai vertici del rugby mondiale. Ma per arrivare ai vertici e restarci dobbiamo trovare una nostra via del rugby, che necessariamente deve essere diversa da quelle delle altre nazioni, perché ognuno ha la sua cultura, le sue qualità e le sue magagne. Su queste dobbiamo lavorare con convinzione e collaborazione, continuando a copiare a destra e manca arriveremo sempre secondi.

 

Di Roberto Avesani

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