RWC 2015: la lista delle cose che ti raccontano un Mondiale ovale

Marco Pastonesi ci dice che cosa si porterà via da questo primo scorcio di torneo iridato. E al solito è imperdibile

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Cantare gli inni delle altre nazioni, così, a prescindere, a memoria, a orecchio, perché se siamo un clan, una comunità, un movimento, un mondo, allora il loro inno è anche il nostro, e intanto i francesi cantano “La Marsigliese” durante Nuova Zelanda-Argentina, gli inglesi “Sweet Chariot” durante Tonga-Namibia, i gallesi tutti gli inni in treno tornando a casa.
Rispettare la Haka degli All Blacks in religioso dunque rugbistico silenzio prima della partita a Wembley contro l’Argentina e condannare gli inglesi che a Twickenham hanno profanato la Cibi con fischi e urla profani dunque calcistici.
Conservare i biglietti delle partite, custodire il bicchiere di plastica con il marchio della Coppa del mondo, indossare la maglia del proprio club, raccogliere il programma del match, collezionare il sottobirra timbrato World Cup.
Condividere una birra, una passione, un sogno, una voglia, un codice, un linguaggio, un treno, un pub, una disciplina, una sorpresa, una scoperta, una coda, insomma, condividere una partita.
Moltiplicare un sorriso, una battuta, un ricordo per il prossimo quadriennio.

 

Entrare un’ora prima, uscire mezz’ora dopo, perdere l’ultimo metro, pensare che sia un’altra possibilità – ce n’è sempre una finché c’è, finché ce n’è -, anzi, un’altra opportunità per conoscere meglio Londra.
Considerare che all’uscita dallo stadio una calca così, una ressa così, nel calcio, susciterebbe violenza e scatenerebbe risse, e invece nel rugby è soltanto stare stretti e appiccicati, vicini, dunque conoscersi meglio.
Intonare, tutti insieme, alla stazione della Underground, “sweet chariot, coming to carry me home”, e “chariot” è il treno.
Rimpiangere di non avere avuto, neppure per un giorno, un’ora, un istante nella vita, l’intuito di Aaron Smith, il passaggio di Conrad Smith, la forza di Mamuka Gorgodze.
Rimpiangere di avere avuto, per un giorno, per un’ora, per un istante la stessa età di Vasil Lobzhanidze, 18 anni e 340 giorni, con cui il numero 9 della Georgia ha debuttato alla Coppa del mondo ed è diventato il più giovane della storia (“Sono contento – ha confidato – ma un po’ nervoso”), e non ricordarsi neanche, a quell’età, dove si era e che cosa si faceva.

 

Ringraziare Ratu Nemani Drui Nasiganiyavi, figiano, perché ci ha semplificato la vita facendosi chiamare con il cognome della madre, Nadolo. Nadolo è grande e grosso, è un armadio di 1,95 per 130 chili, cugino dell’australiano Lote Tuqiri, e la mattina, a colazione, tanto per cominciare, mangia cinque uova in camicia.
Sapere di non potersi permettere di chiamarsi Leone Nakarawa, nome e cognome del figiano dei Glasgow Warriors, un seconda linea di due metri veloce agile e svelto come un trequarti.
Investire qualche sterlina per un berretto di lana a strisce rosse, blu e bianche, dove dentro, idealmente, spiritualmente, ci sono le maglie di Campese e Rokocoko, Wilkinson e Caucaunibuca, per dirne quattro.
Sperare, fra quattro anni, di avere le stesse energie e gli stessi soldi e la stessa passione, e sperare soprattutto di essere ancora al mondo per godersi la prossima World Cup in Giappone.
E infine interrogarsi per sapere se, al settantacinquesimo della partita, che è una storia, una vita, una esistenza, la piazzeresti per pareggiare o te la giocheresti ancora per vincere.

 

di Marco Pastonesi

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