Giappone e Georgia, nel rugby il risultato è sempre una conseguenza

Tecnici stranieri con potere, presenza nelle scuole, soldi a base e strutture: c’è sempre qualcosa da imparare

ph.  Eddie Keogh/Action Images

ph. Eddie Keogh/Action Images

Le sorprese nel rugby fanno un discreto rumore. In una disciplina in cui ad uscire vincitrici sono grosso modo sempre le stesse squadre e in cui arrivare ad un alto livello di competitività richiede non solo risorse ma soprattutto la capacità di saperle utilizzare, sono visti con sempre maggiore interesse l’allargamento dei confini tradizionali e gli scossoni ai tradizionali equilibri di potere.
Nelle prime partite della Rugby World Cup 2015 se ne sono verificati due, uno più forte dell’altro: la vittoria della Georgia su Tonga ma soprattutto quella del Giappone sul Sudafrica. Due risultati che hanno stupito e divertito ma che, al di là dello splendido coinvolgimento emotivo, vanno studiati con approccio quasi scientifico. Se la Coppa del Mondo per noi appassionati è l’evento più atteso, per le Federazioni coinvolte è l’intervallo di tempo entro cui misurare lo stato di salute del proprio movimento. E le prime partite hanno detto che alcune nazioni godono sempre più di ottima saluta. Fortuna? Mai. Piaccia o non piaccia, il rugby è uno sport che più di altri non perdona. Un risultato positivo o negativo è sempre una conseguenza: non si può bluffare e giocare a carte coperte, perché alla lunga, in una partita ma soprattutto in un torneo iridato, la reale identità delle squadre e dei movimenti viene fuori.

 

Il Giappone di Eddie Jones ha vinto abbinando ad un game plane vincente un approccio mentale impeccabile. La disposizione al sacrificio e la vis pugnandi non sono mai mancate, ma a stupire è stata la tenuta mentale della squadra, che dopo due mete taglia-gambe ha avuto la forza di reagire. Ma non in modo disordinato, bensì rimanendo fedele ad un piano di gioco che evidentemente ispira fiducia e porta la squadra a credere nel proprio staff. Eddie Jones ha confezionato un autentico capolavoro tattico. Questo, a grandissime linee, ciò che abbiamo visto in campo per ottanta minuti.
Dietro, c’è un movimento che cresce. Che non pensa a vincere le scaramucce su chi ha più atleti praticanti, ma che porta il rugby nelle scuole in modo credibile: non un’ora di lezione al mese per ogni classe, ma inserendo la palla ovale nei programmi scolastici del dopo scuola ed organizzando, ad ogni livello, momenti di incontro in campo tra istituti diversi. E a guidare il tutto, c’è una Federazione il cui sogno non è probabilmente quello di avere un tecnico giapponese alla guida della propria Nazionale, e che non ha esitato a dare le chiavi (di casa, non della panchina) in mano agli “stranieri” (John Kirwan prima di Eddie Jones).

 

Poche ore prima, la Georgia trovava una storica vittoria contro le più quotate Tonga. Trascinati dalla leadership e dall’esempio di Gorgodze, i caucasici hanno aggredito per ottanta minuti gli avversari uscendo vincitori sul piano fisico/morale prima ancora che su quello sportivo. Non sarà certo stata la partita da insegnare ai corsi tecnici, ma l’immagine del capitano che al fischio finale corre a prendere la bandiera nazionale resterà a lungo nell’archivio di questa competizione. Una nazione che non partecipa alle riunioni dei piani alti, che non ha una Roma e un Olimpico come biglietto da visita, ma che sta premendo terribilmente per conquistare palcoscenici migliori.
L’aiuto è arrivato direttamente da World Rugby (circa 45 milioni di Euro tra il 2012 e il 2015 divisi per dieci stati, briciole rispetto al nostro budget), ma la scelta è stata quella di investire molto nelle strutture e nei campi, per dare un contesto in cui il rugby di base potesse svilupparsi (quando ancora alla Coppa del Mondo 2003 la Nazionale usava un trattore invece di una moderna macchina da mischia). “Senza i soldi il rugby non può crescere, questa è la dura verità […] Personalmente penso che la parte commerciale del rugby aiuti il rugby stesso a crescere in ogni aspetto, in particolare talento e skills”, ci raccontava a fine marzo coach Milton Haig. “Confrontarsi con i migliori non può far altro che migliorare il nostro rugby […], vorremmo giocare più spesso con squadre di alta classifica”.

 

Sotto di noi (ma dalle 13 di oggi entrambe sopra nel ranking, e non di poco) ci sono realtà che premono, e che non aspettano altro di avere l’occasione per dimostrare la loro competitività ad un più alto livello. Dal canto nostro, noi rimaniamo chiusi nell’autoreferenzialità di chi sembra giudicare diritto acquisito ciò che in passato è stato conquistato, e proprio da quelli ex azzurri che ora alzano la voce. Di chi si trascina World Cup dopo World Cup, Sei Nazioni dopo Sei Nazioni, portandosi dietro i soliti problemi e i soliti risultati, nell’immobilismo collettivo e nell’anacronistico pensiero di chi pensa che il risultato dipenda solo dalla prestazione di chi va in campo. Se a Brighton a vincere non sono stati solo i 23 kamikaze, coerenza vuole che a Londra non abbiano perso solo i 23 Azzurri.

Di Roberto Avesani

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