Rispetto, carisma, carattere: Sergio Parisse al centro dell’Ovalia azzurra

Con la Francia alla RWC non ci sarà ma il capitano azzurro – da vero leader – ha le idee molto chiare su premi e futuro

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Sergio Parisse non è un giocatore come gli altri, non nell’Ovalia italiana. Non sono solo la bravura tecnica e le skills messe in mostra sui campi di mezzo mondo. Certo, senza quelle premesse il resto “varrebbe” forse meno ma il carattere e il carisma sono innegabili. E poi c’è il rispetto internazionale che il giocatore e l’uomo si sono conquistati negli anni. Una prova concreta chi scrive l’ha avuta lo scorso gennaio quando a Londra si è svolta la giornata di lancio e di presentazione del Sei Nazioni 2015, una mattinata/pomeriggio in cui i capitani e i ct delle nazionali coinvolte nel torneo (maschili e femminili) rimbalzano come delle palline da ping pong da una sala stampa all’altra.
La stima, l’attenzione e il rispetto che circondavano il nostro capitano da parte dei media di tutta Europa era un qualcosa di concreto e palpabile. Sergio Parisse appartiene alla classe dei Paul O’Connell, dei Matfield, dei McCaw.
Forse siamo noi italiani a vederlo a volte come una sorta di “cugino” di quei giocatori, quasi fosse un accostamento un po’ azzardato, ma non è così. I risultati poco brillanti della nazionale azzurra non aiutano di certo, ma per la stampa britannica o francese (che certo non abbondano di complimenti nei nostri confronti) Sergio Parisse è uno dei giganti del rugby mondiale attuale.

 

Recentemente vi abbiamo proposto alcuni stralci di una intervista che il nostro numero 8 ha rilasciato al magazine Rugby World. In una chiacchierata con il mensile italiano All Rugby Parisse ribadisce gran parte delle parole dette al media di lingua inglese, ma ci sono anche alcuni spunti che vale la pena di sottolineare. E le sue sono parole da leader vero.
Come quando parla dei limiti psicologici che frenano la squadra azzurra, limiti che sono strettamente connessi a un altro aspetto: “(…) non abbiamo la profondità per sostituire chi è fuori forma o si infortuna: alla fine, a giocare siamo sempre gli stessi, mentre altre squadre hanno molte opzioni in ogni ruolo. E la competizione interna è fondamentale per mantenere alta la concentrazione“.
Concentrazione che porta a spostare sempre un po’ più in là i propri limiti: “Sono cresciuto come il più grande critico di me stesso. Anche oggi, preferisco concentrarmi più sugli errori  che sulle cose positive che ho fatto. E’ il solo modo per migliorarsi.

 

Si passa poi dall’atavica mancanza di un’apertura (“Da quando sono arrivato in Nazionale nessun numero 10 è durato più di due stagioni. Significa non aver praticamente mai in squadra un uomo capace di gestire le partite al piede. Come questo possa succedere in un paese come l’Italia dove tutti vanno matti per il calcio è una cosa che io non riesco a spiegarmi. Però è così e dobbiamo rimboccarci le maniche”) fino al suo futuro, anche molto prossimo, soprattutto in chiave nazionale: “Sicuramente a 32 anni, con il quarto Mondiale in vista, sono a un punto di svolta della mia carriera. E’ difficile pensare che di Coppe del Mondo per me ce ne possano essere altre. In questo momento sono in perfetta forma, forse negli ultimi tempi ho giocato il mio miglior rugby di sempre. Ma per quanto durerà ancora? L’obiettivo ora è fare un grande Mondiale, al dopo ci penserò al momento opportuno. Certo, se alcune situazioni  dovessero rimanere quelle del mese di giugno, se dovessi constatare che il rispetto viene meno, per me potrebbe anche l’occasione di ripensare agli impegni internazionali, di dire addio alla Nazionale. Ma deve essere chiaro che non sarà mai una questione di soldi, o di contratti. E’ tutto il resto che per me conta”.

 

Il riferimento al mese di giugno non è ovviamente casuale, si parla delle durissima querelle sui premi che ha diviso i giocatori dalla FIR con il clamoroso “sciopero” di Villabassa. Un problema che al momento pare avere trovato una soluzione (attenzione però: l’accordo trovato riguarda solo i Mondiali, sul tavolo ancora da risolvere c’è quello del Sei Nazioni) e Parisse ricorda così quei giorni: “Non è stato facile prendere quelle posizioni. I temi all’ordine del giorno era però molto importanti e non potevamo accettare che fossero affrontati con tanta leggerezza e qualche frase buttata lì, come se ne stessimo parlando al bar. Ci sono cose che si possono dire in privato, in una discussione a quattrocchi. Ma quando si parla ufficialmente vanno trattate in altra maniera. (…) Non potevamo, non potevo accettare di passare per pensionati o mercenari”.
Infine il suo futuro, con quello che vorrà fare da grande, una volta smesse braghette e calzettoni. Magari il dirigente? “Non sono uno che ama programmare – chiosa Parisse – Certo in queste 12 stagioni trascorse in Francia ho imparato molte cose, ho visto crescere il Top 14 a livelli inimmaginabili soltanto dieci anni fa. (…) Un po’ di esperienza credo di averla fatta e mi piacerebbe metterla a disposizione anche del rugby in Italia“.
Magari ci sbaglieremo, ma l’impressione che abbiamo è che anche negli anni a venire Sergio Parisse sarà al centro del movimento italiano, né più né meno di quanto non lo sia oggi per la nazionale.

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