Speciale Rugby World Cup: 10 domande a Jonny Wilkinson

Marco Bortolami intervista in esclusiva per OnRugby una delle più grandi aperture del rugby mondiale

ph Action Images - Paul Thomas

ph Action Images – Paul Thomas

Da molti è considerato uno dei giocatori più forti di sempre, se non il più forte di ogni tempo. Il protagonista di oggi ha firmato in maniera indelebile il trionfo della sua nazione alla Coppa del Mondo. Una carriera piena di grandi successi la sua, ma anche di tanti momenti difficili. Ogni volta che toccava il tetto del mondo il destino lo attendeva dietro l’angolo con un biglietto per l’inferno…  Solo la sua incredibile dedizione al lavoro, la sua straordinaria umiltà e la voglia di riemergere gli hanno sempre garantito nuovi momenti di gloria.
Ha vinto tutto quello che c’era da vincere da assoluto leader, anche quando molti credevano che la sua carriera fosse alla fine.
Ripercorriamo attraverso le parole di Jonny Wilkinson alcuni momenti indimenticabili della sua vita, avremo l’opportunità di apprezzare di che pasta sia fatto un vero campione dei giorni nostri!

 

Quando hai iniziato a giocare a rugby e perché?
Ho cominciato all’età di quattro anni. Mio fratello aveva iniziato alla stessa età, un anno prima e ci divertivamo a giocare l’uno accanto all’altro. Fu nostro padre a farci avvicinare al mondo del rugby e fu anche il nostro primo allenatore. Lui stesso era stato un giocatore.
La cosa che più amavo a quell’età era l’idea di giocare in una squadra dove ogni individuo dipendeva dagli altri attorno a lui.

 

Quali sono i tuoi ricordi della Coppa del Mondo da ragazzo e avresti mai immaginato di poterla vincere un giorno?
Ricordo di aver visto alcuni spezzoni della Coppa del Mondo inaugurale del 1987 in tv e di aver immaginato di scendere in campo con la maglia bianca dell’Inghilterra! Vidi David Kirk alzare il Trofeo in aria per la Nuova Zelanda. Sognai di riuscire a fare lo stesso un giorno per il mio paese, tanto che scrissi più e più volte i miei obiettivi su un libricino per gli appunti: il desiderio di rappresentare il mio paese, vincere la Coppa del Mondo, essere il calciatore e il capitano della squadra.

 

Sei stato uno dei leader più importanti per la vittoria del 2003, quanto conta il talento e quanto il carattere per ottenere un successo così grande?
Il talento è importante, ma la maggior parte del talento è il risultato di un duro e intelligente lavoro. Quando ero un giovane giocatore c’erano centinaia di ragazzini con tanto talento quanto il mio, se non superiore… quello che conta però è come sviluppi e accresci le tue abilità. Comunque, credo che l’aspetto più rilevante di un atleta sia la sua personalità, il suo carattere. Il rugby ad alto livello è spietato e non perdona. Le sfide arrivano incalzanti e sotto molte forme, il modo in cui una persona reagisce e le scelte che fa determineranno il suo carattere e la sua personalità. Prepararsi bene significa prendersi cura del proprio talento, ma poi rispondere alla chiamata significa avere carattere.

 

Il contesto in cui si opera è fondamentale, molte volte alcuni credono che i risultati debbano arrivare a prescindere dall’ambiente professionale in cui si agisce… Per la vittoria finale del 2003 quanto è stata importante l’organizzazione che Clive Woodward aveva instaurato?
Il contesto in cui abbiamo vissuto è stato il fattore determinante per la nostra vittoria della Coppa del Mondo. Un buon ambiente tirerà fuori il meglio da ogni giocatore. Solo quando hai trenta giocatori che lavorano, ogni singolo giorno, impegnandosi al massimo puoi intravedere cosa sia veramente possibile. L’ambiente in cui operi è una delle cose che puoi controllare meglio. La cosa incredibile che Clive è riuscito a realizzare è stata assemblare una rete di supporto di qualità mondiale e instaurare un codice di valori che ha ispirato i giocatori. I giocatori, a loro volta, poco a poco, li hanno fatti propri, fino ad arrivare a gestirli totalmente. Questa presa di responsabilità della squadra ha creato un senso di invincibilità e di inevitabilità verso quello che voleva ottenere.

 

Dopo la vittoria del 2003 eri considerato il più forte giocatore del mondo, ma il destino ti ha riservato lunghi momenti lontano dal campo a causa di infortuni; quanto difficile è stato accettare quella situazione e quanto difficile è stato riuscire a ritornare a vestire la maglia dell’Inghilterra?
Quel periodo è stato devastante, ma mi ha permesso di crescere come persona. Mi ha dato l’opportunità di affrontare e di iniziare a lavorare su alcuni problemi mentali, emotivi e fisici che mi affliggevano.
La strada per riprendere a vestire la maglia dell’Inghilterra è stata una costante battaglia tra sopravvivere e provare a tornare il miglior giocatore che potevo essere… non è stato semplice e ho sbagliato molte cose. Anche se vorrei averne fatte alcune diversamente, so in cuor mio che, messo nella stessa condizione, sottoposto alla stessa pressione mentale ed emotiva, con le stesse aspettative e la stessa ambizione, finirei per prendere le medesime decisioni, perché sono state le migliori che potessi assumere e perché sempre animato dalle migliori intenzioni.

 

Alcune volte nella carriera di uno sportivo ci sono momenti in cui ricevi solo critiche. Come hai gestito questo genere di pressione e come hai superato quelle situazioni di difficoltà?
C’è bisogno di una profonda forza d’animo per non lasciarsi scoraggiare da una serie di critiche costanti. Quello di cui bisogna rendersi conto è che possiamo controllare solo certe cose attorno a noi. Io sapevo che stavo facendo di tutto per essere il giocatore migliore in ogni partita, le mie intenzioni erano perfette in relazione a chi ero in quel preciso momento. Prestavo enorme attenzione alle mie performances e a cosa facevo per i miei compagni. Il rugby è lo sport di squadra per eccellenza, nessun giocatore ha mai perso o vinto una partita da solo, ogni prestazione è l’interazione tra tutti i giocatori che scendono in campo. Queste verità devono essere accettate nel nostro Io più profondo.
Bisogna stare attenti e non lasciarsi esaltare dai complimenti dei media e del pubblico perché poi dovrai affrontare il viaggio di ritorno fino al punto di partenza. E questo ferisce molto di più…

 

Dopo questo periodo difficile hai deciso di trasferirti a Tolone raccogliendo, non solo la sfida di giocare in una nuova squadra, ma anche quella di immergerti in una nuova cultura; qual è stata la prova più grande che hai affrontato nel processo di integrazione in Francia?
Non avevo giocato per un’intera stagione e sentivo di dover dimostrare di nuovo a tutti, compreso me stesso, di essere un grande giocatore.
In aggiunta dovevo recuperare dall’ultimo infortunio al ginocchio sinistro, dovevo integrarmi in una nuova squadra composta da giocatori che provenivano da tutto il mondo, con un nuovo allenatore, un nuovo preparatore atletico, un nuovo stile di rugby, un nuovo clima, una nuova cultura e una nuova lingua… ma a parte questo è stata una passeggiata!

 

Quali sono le maggiori differenze tra giocare a rugby in Inghilterra e in Francia da un punto di vista tecnico e mentale?
Il rugby è rugby ovunque lo giochi anche se ci sono di sicuro alcune differenze. Il campionato francese è arbitrato in maniera diversa e questo comporta il fatto che la partita è soprattutto un confronto tra i due pacchetti di mischia, gli equilibri si giocano soprattutto sul breakdown e infine sullo scontro fisico con gli altri giocatori. I drop e i calci piazzati hanno un’importanza immensa e il pubblico rende l’atmosfera di ogni incontro, in qualche modo, unica e molto spesso influenza il risultato finale.

 

Sei stato uno dei giocatori chiave per Tolone nella vittoria in campionato e in Europa terminando la tua carriera come uno dei più grandi di sempre. Cosa ti ha spinto a dare il meglio di te giorno dopo giorno?
Ho cercato di comportarmi come nei primi periodi della mia carriera, prendere grandi decisioni e fare grandi risultati è diventato uno stile di vita per me. Invece di impegnarmi solo nel weekend, ho cercato di tenere un comportamento che mi consentisse di riportare quotidianamente prestazioni eccezionali, facendole diventare un’abitudine. Invece di concentrarmi sull’esito finale, ho fatto di tutto per rimanere concentrato nel processo che mi portava a giocare al mio meglio, sapevo che se avessi fatto quello che ritenevo giusto, avrei avuto una grande probabilità di trovarmi dove volevo arrivare. Infine, facevo contare ogni vittoria e ogni sconfitta come se fossero una questione di vita o di morte (con le dovute proporzioni…). Stavo malissimo quando perdevamo e questo mi aiutava a imparare dai nostri errori e, in più, non accettavo di non giocare secondo i miei standard.
Ma, al di là di tutto, ho realizzato che la forza del mio gioco risiedeva negli altri 22 giocatori della squadra. La cosa più importante è il gruppo e deve essere la priorità in ogni decisione. Ho capito che se impiegavo ogni mia energia nell’aiutare i ragazzi attorno a me a raggiungere quello che desideravano, anch’io avrei finito per ottenere ciò che volevo.

 

Guardando alla tua intera carriera, qual è stato il miglior allenatore che hai avuto e cosa hai imparato, invece, da chi non ti piaceva?
Non ho mai avuto un cattivo allenatore, ma i migliori allenatori che ho avuto sono stati Steve Black e Dave Alred. Ho imparato tantissimo da questi uomini, soprattutto che il mutuo sostegno e il diritto di migliorare devono essere incondizionati verso ogni componente della squadra, dal primo all’ultimo.
Questi allenatori incoraggiavano i giocatori a migliorarsi giornalmente attraverso il duro lavoro, comportandosi loro stessi in questa maniera. Attraverso la comprensione profonda hanno ispirato qualcosa di speciale in ogni individuo, facendogli capire che era importante. Oltre a tutto questo, sono stati, senza ombra di dubbio, i più onesti, genuini e migliori allenatori nel loro campo!

 

di Marco Bortolami

 

Leggi 10 domande a Clive Woodward – Lawrence Dallaglio – Eddie Jones – Thierry Dusautoir – Paul O’Connell – David Humphreys – Bryan Habana

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