Zebre e territorio: può una franchigia nata in laboratorio scaldare i cuori?

La società ha lanciato il progetto “Io Ci Sono”, per legarsi al territorio in cui si è stata calata

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Oltre alla crescita tecnico-tattica, affidata a coach Cavinato e allo staff, le Zebre si sono in queste stagioni celtiche impegnate anche in un altro tipo di crescita, diverso ma parimenti importante. Lo scopo è semplice da capire, ma difficile da realizzare: fare delle Zebre il quindici del Nord-Ovest, come recitano gli striscioni che accolgono i tifosi sugli spalti del XXV Aprile. Per realizzarlo, bisogna legare la squadra al territorio, circostante e non solo, e far entrare la maglia zebrata nel cuore di tifosi e appassionati. Il tutto è reso terribilmente più difficile dal fatto che le Zebre non sono espressione naturale ed endogena di quel territorio, ma un prodotto artificiale ed estemporaneo in qualche modo calato dal deus ex machina della Federazione. Nessuna accezione negativa in questo, solo la constatazione di quanto possa essere difficile il portare a compimento un simile progetto partendo da queste premesse, per di più in un contesto, quello della città ducale, che negli ultimi anni a livello ovale ne ha viste di tutti i colori. Se mai un domani dovessero esordire in Celtic League i Dogi, giusto per semplificare, un simile progetto di “fidelizzazione” sarebbe certamente avvertito in modo più “naturale” e meno costruito. Ma la società, a quanto pare, sta lavorando anche da questo punto di vista.

 

In occasione del match contro Gloucester è stato ufficialmente lanciato il programma “Io Ci Sono”. I 36 presidenti di altrettanti Club aderenti alla franchigia Zebre si sono incontrati nella sala conferenze della Cittadella (a proposito, struttura tanto bella quanto sottoutilizzata) prima del calcio d’inizio per un incontro con il Presidente Bernabò. Non si è certo discusso di massimi sistemi, ma si sono comunque gettate pubblicamente le basi per la costruzione di ciò che dovrebbe assomigliare il più possibile ad una franchigia in salsa celtica.
Simbolicamente, il taglio del nastro è stato sostituito dalla consegna da parte di ogni club della propria maglia al capitano Bortolami, il quale ha a sua volta ricambiato con altrettante maglie delle Zebre. “Come la Nazionale rappresenta il rugby italiano, così le Zebre quando scendono in campo vogliamo rappresentino tutti questi club”, ha detto Bernabò. Un concetto chiaro, ripetuto anche dal Consigliere Franco Paolini: “Ogni ragazzo che va in campo deve sentire di far parte di questa famiglia, e di poter diventare a sua volta una Zebra, nel nome di un senso di comunità e appartenenza“. Il punto di arrivo ideale di tutto ciò, con le dovute proporzioni, potrebbe essere l’immagine di Dan Carter che torna in campo con il suo club dopo la pausa sabbatica.

 

Queste le parole. A livello di contenuti, si traducono in alcune iniziative, dentro e fuori dal campo. Tra le prime, sedute di aggiornamento tecnico presso i vari club affidati all’ex allenatore degli Aironi Franco Bernini e la partecipazione dei tecnici dei club alle sedute di allenamento delle Zebre. Per quanto riguarda le seconde, citandone due, l’organizzazione di forum dedicati ad alimentazione, marketing ed economia in campo sportivo e la presenza di giocatori delle Zebre ad eventi organizzati dai club. La volontà è proprio quella di creare una comunità sportiva che elimini le barriere tra mondo amatoriale e professionistico e quelle geografiche di lontananza.
Il progetto, certamente, è ambizioso. E non bisogna pensare che in questo tipo di cose solo l’aspetto tecnico e puramente sportivo siano importanti, anche se è innegabile che qualche vittoria in più incentiverebbe le persone a recarsi al XXV Aprile  (che inizia a scaldarsi durante le partite) e a prendere a cuore le Zebre. Occorre creare un’atmosfera, una passione comune, e fare in modo che tifosi provenienti da società diverse (e magari storicamente e sportivamente rivali) si sentano parte di un progetto comune. Ai più scettici poi nemmeno queste piccole cose andranno bene, ma il primo passo intanto è stato fatto. Che poi il Thomond Park sia un’altra cosa, uno ci arriva benissimo da solo a capirlo.

Di Roberto Avesani

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