“Fattore Pollard”, mischia Pumas e crisi wallabies: un torneo ai raggi X

Antonio Raimondi rilegge pregi e difetti delle quattro protagoniste del Rugby Championship secondo quello che ha detto il campo

ph. Siphiwe Sibeko/Action Images

L’Inghilterra è tornata dal tour di giugno in Nuova Zelanda con la consapevolezza di poter competere, anche se non è riuscita a batterli in casa loro, con gli All Blacks. Il terzo posto nel ranking mondiale e il fatto di giocare la prossima Coppa del Mondo in casa, rendono credibile la sua candidatura mondiale. Facendola facile, gli inglesi a giugno hanno capito che la differenza l’ha fatta la miglior condizione fisica degli All Blacks e su quello devono lavorare nei prossimi dodici mesi. E’ un preambolo che ci porta al Championship e agli Springboks che sabato scorso nell’ultima giornata del Championship hanno messo fine, dopo ventidue partite, alla serie senza sconfitte degli All Blacks.
La vittoria è importante, anche se il titolo del torneo era già in Nuova Zelanda, perché il valore della singola partita, per storia e rivalità, supera quello dello stesso torneo. Guardando agli ottanta minuti dell’Ellis Park in prospettiva Coppa del Mondo, possiamo pensare all’inizio di un cambiamento che potrebbe essere epocale e niente incoraggia al cambiamento più del successo. Gli Springboks sono usciti dalla “zona di conforto” costituito dal kicking game, quello, per intenderci, che ha fruttato la Coppa del Mondo del 2007 e che è il marchio di fabbrica sudafricano e dei Bulls. La squadra di Meyer ha iniziato a esplorare il territorio di un gioco fatto di corsa e mantenimento del possesso. La mutazione è stata improvvisa ed era iniziata la settimana precedente, quando i sudafricani avevano demolito, palla in mano, i Wallabies, arrivando ad impilare anche trenta fasi di gioco.

 

Nelle prime quattro giornate del torneo gli Springboks hanno avuto la più bassa quantità di possesso, in media tredici minuti e sei secondi. Mettendo a confronto i numeri dei due match tra Sudafrica e Nuova Zelanda, si evidenzia il cambiamento degli Springboks. La quantità di possesso è passata dal 40% al 51% in termini di cronometro da quindici minuti e undici secondi a diciotto minuti e cinquantaquattro secondi. I calci si sono abbassati da trentaquattro a ventitré, mentre il passaggio come opzione scelta dal mediano d’apertura è passata dal cinquantasette per cento a settantaquattro per cento, che in termini numerici significa oltre il doppio dei passaggi da otto a diciassette. Infine a sottolineare ulteriormente il cambiamento, il Sudafrica ha triplicato le azioni che hanno superato le cinque fasi, passando da quattro a tredici, erano state addirittura venti contro l’Australia.
Il cambiamento è passato attraverso la scelta di un mediano d’apertura come Pollard e dall’esclusione, alla fine anche dai ventitré di giornata, di Morné Steyn, non adatto a sostenere con le sue caratteristiche la nuova idea di gioco. Pollard, nella sua capacità di giocare vicino alla linea del vantaggio e di aprire la difesa, pur con le dovute distinzioni, ha ricordato l’affacciarsi alla ribalta dei test match di Dan Carter.

 

Inquadrata la mutazione degli Springboks, ritorna il discorso iniziale e della ricerca da parte degli inglesi della condizione atletica. E’ evidente che un gioco di corsa come quello delle due ultime settimane, richiede un atleta diverso, rispetto a quello forgiato per il kick and chase, un atleta capace di reggere intensità e corsa per periodi che possono arrivare, come è successo contro l’Australia, anche a trenta fasi.
Interessante anche la tempistica del cambiamento e che oggi ci rende più comprensibili le scelte fatte all’inizio del torneo. Pollard è stato scelto all’inizio del torneo, ma probabilmente la squadra non era pronta ad interpretare un piano di gioco differente. Così il cambiamento è arrivato nelle ultime due giornate, quelle in casa, contro gli avversari più temibili e più adatti a testarti sul ritmo e intensità. Nei prossimi dodici mesi vedremo se Heineke Meyer proseguirà su questa nuova strada e i test di novembre, sui campi bagnati dell’Europa, saranno già una bella prova.

 

La sconfitta di Johannesburg ha riportato gli All Blacks tra i mortali, per quanto rimangono i primi del ranking mondiale, nonché i detentori del Championship. La sconfitta, per quanto i neozelandesi possano inorridire, è arrivata al momento giusto. Le grandi squadre imparano di più dalle sconfitte che dalle vittorie è la tesi di Graham Henry e questa volta Steve Hansen e gli All Blacks hanno dimostrato di voler ascoltare la lezione di sabato scorso, anche se, vogliamo dirla tutta, la partita l’avevano raddrizzata. Questi All Blacks sono più consapevoli della propria forza e degli ostacoli che possono incontrare. Verrebbe quasi da dire che hanno imparato a perdere, riconoscendo, come ha fatto Steve Hansen, che la vittoria sabato scorso è andata alla squadra migliore nella giornata. Nessuna interferenza esterna, nessun virus, nessuna scusa che potesse giustificare la sconfitta o diminuire l’impresa dell’avversario, come era successo quasi due anni fa, quando gli All Blacks furono sconfitti dall’Inghilterra a Twickenham. E’ l’atteggiamento di chi conosce la propria forza, ma è anche capace di riconoscere qual è la strada per il miglioramento che conduce molto vicino alla perfezione. Un atteggiamento che avevamo già intravisto in apertura di torneo, quando nel giro di una settimana gli All Blacks sono passati dal pareggio ad una larga vittoria sull’Australia.
Gli All Blacks impareranno da questa sconfitta, ma i loro avversari non possono illudersi che sia solo una questione di condizione fisica. Gli All Blacks rimangono un passo avanti a tutti, perché, meglio di qualunque altra squadra, sanno giocare la situazione di campo, evidenziando e sfruttando il punto debole momentaneo dell’avversario. A questo aggiungono la capacità di innovare il gioco, di proporre idee alle quali gli avversari devono adeguarsi e l’x-factor che è collettivo, prima ancora che individuale.

 

Scritto delle prime due del ranking mondiale, l’ambito competitivo del Championship ha misurato la crescita dell’Argentina. che, pur chiudendo ancora all’ultimo posto della classifica, ha dimostrato che il suo non è più un rugby a una sola dimensione, legato esclusivamente alla mischia. Non che abbiano abbandonato quella fase, anzi, il cambiamento nelle regole d’ingaggio introdotto lo scorso anno, ha riportato alla ribalta la scuola tecnica argentina e i Pumas sono il punto di riferimento mondiale per la mischia ordinata. Magari, un po’ per colpa loro e un po’ per la non precisa gestione della fase da parte degli arbitri, non sempre riescono a rendere redditizia la superiorità che hanno in mischia ordinata.
Resta però una stagione da incorniciare, un nuovo gradino di crescita consolidato non solo perché è arrivata la prima vittoria nel torneo a danni dell’Australia. I Pumas sono stati competitivi nelle due partite con il Sudafrica, sfiorando il successo e ottenendo il bonus difensivo, e hanno messo paura agli All Blacks in Nuova Zelanda.
La strada è quella giusta, anche perché questa crescita è stata concretizzata attraverso il cambio generazionale e in chiave Coppa del Mondo i Pumas non sarebbero più la sorpresa come nel 2007 quando in Francia conquistarono il terzo posto.

 

Infine l’Australia. Con la sconfitta con l’Argentina è entrata in una crisi che non è solo di campo. Da agosto a ottobre è passata dal pareggio con gli All Blacks alla sconfitta con l’Argentina. Da troppo tempo gli Australiani sprecano il loro talento perdendosi tra interferenze di vario tipo e il caso Beale è solo l’ultimo segnale della confusione che regna tra i Wallabies. La vittoria dei Waratahs nel Super XV rischia di essere un episodio isolato, anche se aveva dato agli australiani la speranza di poter battere gli All Blacks. Il pareggio di Sydney, che aveva interrotto a diciassette la serie di vittorie degli All Blacks, avrebbe dovuto essere il punto di partenza e invece si è rivelato il capolinea di un gruppo incapace di esprimere con continuità le proprie qualità. Per la squadra di Mckenzie a novembre c’è in gioco una bella fetta di mondiale, perché dovrà dimostrare di poter sopravvivere al girone della morte in quell’anticipo di RWC15 che saranno i test contro il Galles e l’Inghilterra.

 

di Antonio Raimondi

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