Il lunghissimo viaggio tra Francia e Italia, due mondi lontani

Marco Pastonesi parte da Lione e dal 1954 per raccontarci perché il nostro movimento e quello transalpino sono ancora così distanti

ph. Action Images

La prima scuola di rugby fu creata a Lione. Era il 1954. Si trattava di accudire, pascolare, sorvegliare i ragazzini sotto i quindici anni, il giovedì pomeriggio, nel doposcuola. Proviamo con il pallone ovale, si dissero alcuni insegnanti che non sapevano di avere avuto un’idea geniale.

La voce si propagò a una velocità che già doveva dare la sensazione del successo: dagli insegnanti ai club, così nei club si preparò un’area per accogliere i nuovi ospiti e si organizzarono anche i primi tornei. Presto un punto di riferimento divenne il Torneo Michelin a Clermont-Ferrand. Lì, alla fine di un banchetto, un dirigente tenne il suo discorso sui giovani e il rugby, e chissà se ispirato dai valori del gioco o dai gradi del vino, esclamò: “Scuola di rugby, scuola di vita!”. Il punto esclamativo gliel’ho messo io.

Quando mi chiedono quale sia la differenza fra il rugby francese e quello italiano, non sottolineo la distanza fra Serge Blanco e Rocco Caligiuri (Rocco era più forte, ma non sarei mai creduto), fra Jean-Pierre Rives e Massimo Giovanelli (qui, nonostante l’affetto per il Giova, non posso dire altrettanto), ma dico o scrivo o parlo di quella antica scuola di rugby.

Cinquant’anni che sono diventati una distanza quasi incolmabile. Perché il rugby, in Francia, è materia scolastica, invece, in Italia, è voglia e volontariato, insomma buona volontà, quasi una missione, sempre un esperimento. Più che associazioni sportive dilettantistiche, le società italiane di rugby sono delle Onlus.

Tant’è che è capitato, e magari capiterà altre volte, di sconfiggere la Francia, ma quella differenza scolastica, moltiplicata in distanza culturale e poi agonistica, appare eterna. Poi la Francia è la Marsigliese, che non c’è niente da fare, è così coinvolgente che non si riesce proprio a resistere alla tentazione, e si finisce con il cantarla insieme con i francesi.

Poi la Francia è quel guizzo, quello schizzo, quel ghiribizzo, è l’immaginazione al potere, com’era scritto sui muri della Sorbona nel 1968, e allora in quella circostanza non si parlava di rugby, l’imprevedibilità sul campo, l’impossibilità di essere normali, regolari, schematici, infatti con tre guizzi, cioè due schizzi e un ghiribizzo, domenica ci hanno rifilato tre mete in dieci minuti.

Poi la Francia è l’”arriere”,l’”ouvreur”, il “talonneur”, è il “plaquage”, la “touche”, la “melée”, insomma è l’”Ovalie”. Poi la Francia è Jacques Brunel, gambe storte e bella faccia da pirenaico, che s’illumina più a nominargli Raymond Poulidor che non Jean Prat.

Poi la Francia è quello scrittore, Jean Lacouture, che sosteneva: “Se il rugby non è un gioco universale, parbleu, è perché i rugbisti non l’hanno voluto! Soltanto gentiluomini. Il rugby, gioco da monelli, sarà uno sport pericoloso se fosse proposto ai monelli”. Poi la Francia è quel giornalista sportivo, Roger Couderc, che ai microfoni della Rtf, annunciò le formazioni di Francia e Galles, poi, quando i giocatori entrarono sul prato del Parco dei Principi, lanciò l’urlo “allez le petits!”, che per decenza non si traduce, e da allora venne considerato il sedicesimo uomo dei Bleus in campo.

Poi la Francia è Daniel Herrero, che da giocatore era un bastardo, ma da scrittore è un poeta, suo il “Dictionnaire amoreux du Rugby”. Herrero era in sala stampa, e con lui anche Serge Betsen, un altro che sul campo sentiva il richiamo della foresta.

Poi la Francia è anche il Trofeo Garibaldi (l’ha fatto Jean-Pierre Rives, e non Massimo Giovanelli), così pesante che nessun capitano azzarda a impugnarlo o a brandirlo o tantomeno a sollevarlo, perché si strapperebbe i dorsali.
La prima scuola di rugby fu creata a Lione. Era il 1954, l’anno in cui sono nato: qualcosa vorrà pur dire. Forse. Speriamo di sì.

Marco Pastonesi

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