Dalla polvere di Dachau con una palla ovale in mano: Aldo Battagion e la Rugby Bergamo

Marco Pastonesi questa settimana ci racconta la storia di un club e di un giocatore che ha vissuto le pagine più buie del Novecento

Dal sito web della Rugby Bergamo

Il campo più difficile non stava a Brescia o a Milano – a quel tempo, a Rovato e a Calvisano, a Ospitaletto e a Castel Mella, i campi erano soltanto a patate – ma a Dachau. Fu la partita della vita, o della morte. Se vincevi, vivevi. O meglio: se sopravvivevi, vincevi. Se perdevi, morivi. O peggio: se morivi, perdevi. La partita cominciò il 9 ottobre 1944. Durò quasi sette mesi. Si concluse il 29 aprile 1945, quando le truppe americane invasero il campo. Aldo Battagion ce l’aveva fatta. E se ce l’aveva fatta, come avrebbe sempre ricordato, era stato solo per merito del rugby.
Classe 1922. Aldo, bel nome, secco, pieno, quasi fisico. Battagion, cognome veneto per un bergamasco, quasi a ribadire quella lontana Serenissima. Famiglia benestante, il padre industriale. Pallone rotondo, come per tutti. Poi pallone ovale, come per caso, come per sfida e provocazione, come per miracolo. La prima partita nel 1939, il 28 dicembre, a Bergamo: Gil Bergamo contro Gil Brescia. Gil sta per Gioventù italiana del littorio, l’antenato dei Centri universitari sportivi, considerando il periodo fascista. I bergamaschi, la maggior parte reclutata negli istituti industriali, non per la tecnica ma per il fisico, in maglia rossa con un’enorme B bianca sul petto. Risultato, nonostante il criterio di selezione base per altezza: 16 a 8 per i bresciani.

 

Poi Battagion emigra a Milano. La ragione è lo studio, prima alle superiori, poi all’università. Già che c’è, ancora rugby. Nella squadra degli universitari locali, anche in quella della Nazionale italiana universitaria. E due partite all’estero, a Budapest, Ungheria, e a Bucarest, Romania. Maglia nera con la M di Mussolini sul petto. Quelle due partite – Ungheria e Romania si disputano anche la questione della Transilvania – servono a stringere accordi, se non proprio a irrobustire amicizie, con gli alleati. Battagion ricorda memorabili banchetti. Finché deflagra la guerra. Finché comincia la partita a Dachau. Se ce la fa, se salva la pelle, Battagion lo deve proprio al rugby. Mediano di mischia, sa come immaginare lo scontro, come muoversi fra i giganti, come resistere agli attacchi.
Visione del gioco. Che è: osservare, studiare, escogitare. Piccoli eroismi quotidiani, azioni di sostegno, furti nelle rimesse, calci di liberazione. La storia insegna come la sopravvivenza media, in un campo come quello di Dachau, sia di tre o quattro mesi. Il tunnel di Battagion è lungo quasi sette mesi. All’improvviso appare la luce. Da Dachau all’Italia, e in Italia nella Resistenza. Da quel giorno, per lui, il rugby diventerà anche un atto di riconoscenza, un inno alla vita. Tant’è che Battagion, che torna a giocare nella Rugby Milano e approda anche nella Nazionale maggiore (due “caps”, sconfitta contro la Francia a Rovigo e vittoria contro la Cecoslovacchia a Parma, con una trasformazione), prima di partecipare, nel 1950, alla fondazione del Rugby Bergamo, come giocatore, sempre da mediano di mischia (prima con il numero 7, perché la numerazione comincia dall’1 dell’estremo, poi con il 9, quando l’1 passa al pilone sinistro), come promotore, portando rugbisti milanesi a Bergamo, quindi come consigliere, infine come memoria storica.

 

Oggi il Rugby Bergamo, giallorosso, è la prima squadra al primo posto in serie C, poi dal minirugby fino all’Under 20, poi Old e femminile. E’ missioni nelle scuole, è affettuose convenzioni e valorose sponsorizzazioni, è club house e terzi tempi, è tornei e feste, e presto sarà anche un libro. Per ricordare giocatori come Battagion.

 

di Marco Pastonesi

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