Tradizione, Storia e… soldi: cosa è un tour dei British & Irish Lions

E’ l’evento rugbistico del 2013. Per giocatori e coach è la porta per entrare nella leggenda. E Antonio Raimondi ci racconta tutto

ph. Andrew Couldridge/Action Images

Abbiamo messo alle spalle i test d’autunno e pure il sorteggio dei gironi di Coppa del Mondo. Il futuro prossimo, soprattutto per noi, è il Torneo delle Sei Nazioni, che attendiamo con una nuova fiducia, ma l’evento più atteso nel mondo ovale anglosassone è il Tour dei British and Irish Lions in Australia. Per capire il valore di indossare la maglia della selezione delle “Home Union” dovrebbero bastare le parole di Lawrence Dallaglio: “Non fraintendetemi, la Finale della Coppa del Mondo del 2003 è stata fantastica, ma il più grande momento della mia carriera è stato ogni volta in cui ho indossato la maglia dei Lions”.
I Lions hanno costruito la loro storia lungo centoventicinque anni e con il Tour del 2009 in Sudafrica, hanno dimostrato di poter resistere ai cambiamenti del rugby mondiale, continuando a essere competitivi sul piano tecnico e produttivi su quello economico. Il Tour del 2013 potrebbe essere dal punto di vista dei risultati economici, il più grande di sempre. Una baracca, si fa per dire, da quattordici milioni di sterline, che ne restituirà quattro di profitto da dividere tra le quattro federazioni. Si è passati da un’epoca in cui la stessa istituzione dei Lions era messa in discussione, perché pesava sui bilanci delle federazioni, a una in cui non si vede l’ora di rinnovare l’accordo con Sanzar, perché i tour restituiscono un dividendo importante.
Il viaggio in Australia costerà una cifra variabile, a causa dei bonus per i giocatori, da un milione settecentomila sterline a due milioni e quattrocentomila, per i giocatori il compenso base è di 45.000 sterline, che salirà fino a un massimo di 67.000 sterline in caso di vittoria in tutte le partite.
Pur in un periodo di crisi, gli sponsor fanno gara per sostenere i Lions. Due esempi su tutti: una casa vinicola sudafricana è entrata, anche grazie alla sponsorizzazione dei Lions, tra i primi cinque per vendite del mercato inglese, partendo da oltre la ventesima posizione, e la maglia dei Lions è tra le più vendute a livello mondiale. A questi risultati, va aggiunto l’impatto economico sulle nazioni ospitanti, a turno Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. Si prevede che non saranno meno di trentamila i tifosi al seguito dei Lions in Australia che spenderanno in viaggi in aereo, notti in albergo, ristoranti, birre, gadget e tutto quanto fa spettacolo.

 

La dimensione economica è solo l’espressione dell’importanza che l’evento ha a livello sportivo. Warren Gatland è l’allenatore chiamato a guidare i Lions. Un neozelandese per affrontare l’Australia, com’era accaduto, dodici anni fa, quando Graham Henry, fu il primo allenatore “straniero” della selezione. Il risultato fu negativo, perché per la prima volta i Lions persero la serie in Australia. La prossima settimana Gatland ufficializzerà lo staff che lo accompagnerà nell’avventura australiana, pescando molto tra quelli che hanno lavorato bene, restaurando i valori più importanti dei Lions, quattro anni fa in Sudafrica sotto la guida di Ian McGeechan, l’uomo cui i Lions moderni devono di più, perché forse senza di lui sarebbero spariti. I nomi sicuri sembrano essere quelli di Graham Rowntree e Shaun Edwards.
Per i giocatori se ne parla già da qualche tempo e si continuerà a parlarne fino al momento della selezione, una chiamata equivale a una laurea honoris causa, come visto per Dallaglio, il punto più alto, anche per chi ha avuto una carriera straordinaria e di successo con la propria nazionale. Figuriamoci in termini di reputazione esserne capitano e affiancarsi a uno come l’irlandese Willie John McBride, considerato il più grande di sempre. In questo momento è difficile prevedere chi sarà il capitano dei prossimi Lions, anche perché quasi tutti i capitani delle Home Union stanno un po’ soffrendo, da Chris Robshaw, che si è presa la rivincita sconfiggendo gli All Blacks, a Sam Warburton, che con il Galles non sa più vincere.

 

Il dubbio per la scelta dei giocatori è quello tra forma e reputazione. Un esempio che viene dall’ultimo tour è Simon Shaw, chiamato nonostante gli allora trentacinque anni, che dodici anni prima aveva partecipato al tour in Sudafrica, senza però avere la soddisfazione di giocare nei test match, e che buttato dentro nel secondo test, aveva giocato una partita “mostruosa”. Potrebbe essere il caso di Jonny Wilkinson, che ha rinunciato all’attività con la nazionale inglese, ma probabilmente non saprebbe dire di no alla chiamata dei Lions. Lo stesso Gatland ha ammesso che non sono molti i potenziali Lions che a oggi metterebbe nel suo quindici mondiale, quando è stata sollecitato da una domanda, aggiungendo che probabilmente avrebbe messo otto o dieci All Blacks. E, in effetti, i punti interrogativi sono davvero molti, perché ci sono giocatori infortunati, che non abbiamo visto nei test di novembre, ma che sono comunque attesi da Gatland: O’Driscoll, magari per vederlo a fianco di Manu Tuilagi, oppure Paul O’Connell, figura di leadership di sostanza, o per rimanere ancora in Irlanda, Rob Kearney, grande protagonista con i Lions in Sudafrica. Alla base della selezione, questo dalle parole di Gatland è abbastanza chiaro, giocatori che sappiano giocare il livello d’intensità rugbistica dell’emisfero sud.
Si giocherà in Australia, su terreni veloci, servono giocatori “a tutto campo”. E’ un avviso che sicuramente è arrivato ai giocatori di Galles, Inghilterra, Irlanda e Scozia e che influenzerà il loro modo di giocare nel prossimo Sei Nazioni, nelle Coppe Europee, in Celtic League e nel campionato inglese. Al giornalista inglese Nick Cain, Gatland ha sottolineato lo spirito della sua selezione: “Vogliamo andare in Australia, giocare a rugby, muovere la palla e segnare mete, ma non a costo di perdere. Dobbiamo essere intelligenti e se questo significherà giocare in modo più chiuso, saremo preparati per dominare in mischia, senza perdere la qualità potenziale dei nostri tre quarti.”.

 

La dichiarazione di Gatland è interessante, perché capace di strizzare l’occhio agli inglesi, alla loro cultura di gioco “conservative”, ma mostrando anche la via dello sviluppo del gioco. Una delle cose più interessanti, studiando la storia dei British and Irish Lions, è la costruzione della squadra e la capacità di motivare i giocatori. Celebri i discorsi di Ian McGeechan e Jim Telfer, potete trovare su youtube gli esempi, durante i test del 1997, che contribuiscono a creare la leggenda dei Lions, così come si potrebbe scrivere un trattato di “team building” aziendale, perché non è facile mettere insieme una squadra, partendo dal principio che gli inglesi giocano a rugby perché l’hanno inventato; gli irlandesi ci giocano perché odiano gli inglesi e adorano le risse; gli scozzesi perché sono i nemici storici degli inglesi mentre i gallesi hanno un vantaggio su tutti gli altri: ognuno di loro è nato su un campo da rugby o vi è stato concepito.

 

di Antonio Raimondi

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