Fortissimi, letali e ora anche cinici: in viaggio dentro il pianeta All Blacks

Come presentare la squadra più forte del mondo, quella che non ha bisogno di presentazioni?Con Antonio Raimondi…

ph. Sebastiano Pessina

E’ difficile presentare gli All Blacks, soprattutto se si vuole provare a essere originali, perché, quasi, è già stato detto tutto. Sono i più forti e anche i campioni del mondo, vale la pena rilevarlo perché dal 1991 sono sempre stati i più forti, ma fino allo scorso anno, non erano più stati anche i campioni del mondo. Costituiscono una delle squadre sportive più famose del mondo, stanno nel gruppo d’élite che comprende marchi come Ferrari e New York Yankees, e hanno l’aura vincente di chi non inizia la partita sullo zero a zero, vuoi per la storia, vuoi perché loro hanno la Haka. La parte storico-statistica è quasi inutile sottolinearla, tanto gli All Blacks sono i più forti.

 

E’ più interessante provare a capire perché la nazionale neozelandese è la migliore del mondo, pur essendo espressione di un paese di soli quattro milioni di abitanti. La parola chiave è innovazione, caratteristica di tutte le realtà, non solo sportive, di successo. Innovazione tecnologica alla base dello sviluppo economico, innovazione rugbistica base per il successo sportivo degli All Blacks.
Fin dai primi tour, gli All Blacks hanno contribuito all’evoluzione del gioco, innovando e diventando punto di riferimento per tutti. Nel tour del 1905 gli Originals, in un’epoca in cui la mischia non era ancora stata codificata, presentarono una prima linea con soli due uomini. Quella squadra vinse tutte le partite in Irlanda e nel Regno Unito ad eccezione di quella contro il Galles, che perse tre a zero. I gallesi vinsero, copiando i due uomini in prima linea e utilizzando l’extra uomo come “libero” definito rover. In passato, quando la televisione non aveva ancora ridotto le distanze del mondo, un tour era l’occasione per vedere cosa c’era di nuovo tra i ragazzi in nero. Oggi le cose sono cambiate e per restare all’avanguardia bisogna anticipare e innovare rapidamente, anno dopo anno, qualche volta c’è la necessità di rinnovamento anche all’interno della stessa stagione. La grandezza attuale degli All Blacks sta proprio nell’essere più avanti di tutti.
Dopo il successo nella Coppa del Mondo, ci si poteva aspettare una squadra appagata con la necessità di cambiare, anche semplicemente per motivi anagrafici. Il futuro poteva essere dell’Australia, che con il Galles, era la squadra più giovane tra le semifinaliste della World Cup. Invece gli All Blacks hanno vinto il Championship, hanno vinto la serie con l’Irlanda, chiudendo con un sessanta a zero, e continuano imbattuti, anche se hanno fallito il record di vittorie consecutive, con il pareggio di fine ottobre con l’Australia.

 

Da Henry a Hansen l’innovazione si sposa con il concetto di continuità o per prendere un modello economico, siamo nell’area dell’innovazione incrementale, quando cioè si migliora un processo già esistente. L’innovazione degli All Blacks sta anche nella semplicità del loro modello, perché il loro gioco è quello meno strutturato, rispetto ad esempio a quello australiano, e che lascia forse più spazio all’interpretazione del singolo giocatore. Non è un concetto neppure vicino all’anarchia e neppure al “caos organizzato” teorizzato da un allenatore di calcio un po’ di anni fa. Nella sua semplicità, non è un modello facilmente copiabile, perché devi avere giocatori in grado di interpretarlo, sia dal punto di vista fisico, con un alto livello di fitness, che tecnico, con una scatola di attrezzi, (nel suo bagagliaio tecnico diceva un campione azzurro, ma calciatore) adeguato alle situazioni che deve interpretare.
E’ un meccanismo quasi perfetto, in questo caso si può parlare davvero di partita a scacchi, perché in modo semplice, gli All Blacks si muovono in campo, per spostare gli avversari e mettersi in una situazione ideale, facile da interpretare. Ad esempio la liberazione dei propri ventidue non è semplice e diretta, ma avviene dopo un secondo o terza fase, con la doppia opzione di un destro e di un mancino, in modo da isolare l’estremo avversario nella copertura della profondità, perché le ali non possono abbandonare la linea difensiva. Lo spostamento del pallone da fasi statiche è mirato a mettere in posizione d’attacco con diversi punti di riferimento, pensiamo al playmaker naturale come Dan Carter (Cruden in particolare visto con i Chiefs campioni del Super XV) ma anche a Conrad Smith, che diventa secondo playmaker esterno, spesso agendo nel corridoio più esterno.
Sono solo degli esempi, perché non si può racchiudere in poche battute tutto il gioco degli All Blacks dai quali si può imparare, anche in mischia ordinata, tornata solida, all’avanguardia grazie al guru Mike Cron, addirittura didattica se provate ad osservare con attenzione tutta la fase di preparazione. Non si dice poi una cosa nuova, visto che è stata poi copiata spesso, la disposizione di un secondo estremo nel triangolo allargato che ha di fatto modificato il modo di interpretare il ruolo di ala. Con giocatori come Cory Jane e Israel Dagg l’ala non è più soltanto il finisseur, ma deve andare a cercarsi lavoro in giro per il campo, oltre a garantire un’efficace copertura del campo.

 

Nel processo d’innovazione seguita adesso da Steve Hansen c’è l’introduzione di qualcosa che spesso è mancato storicamente agli All Blacks, la capacità di vincere le partite nella giornata storta, di costruire un drop, quando la situazione lo richiede, come non successe nella famosa eliminazione dalla Coppa del Mondo del 2007. Un’arma questa che sarà necessario avere per andare a vincere la Coppa del Mondo in Inghilterra nel 2015, perché tra le squadre che hanno vinto due volte la World Cup, la Nuova Zelanda è l’unica a non averla vinta in trasferta.
Quali All Blacks dobbiamo aspettarci sabato contro l’Italia? Senza McCaw, almeno per quanto annunciato prima dell’inizio del tour, per gli altri aspetteremo l’annuncio della formazione, tanto è difficile trovare dei punti deboli. Ci sono delle cose da non fare e altre che invece è auspicabile mettere in atto. Non provare a sfidarli sul piano del ritmo, ti (ci) schianterebbero. Accorciare il campo, riuscire a giocare in porzioni ristrette ci renderebbe meno vulnerabili. Per farlo occorre precisione nel gioco al piede, organizzato per poter portare pressione. Per finire placcare, placcare e placcare ancora, vincendo la collisione. Difficile farlo per tutti gli ottanta minuti.

 

di Antonio Raimondi

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